Lo spazio dei lettori

La maledizione di Atuk

Chiunque di noi, da bambino e non solo, ha creduto a qualche strana maledizione aleggiante su luoghi, persone, oggetti e così via. Non era necessario che ci fosse una motivazione “logica” a tale credenza (un luogo in cui si è svolto un efferato omicidio, ad esempio, oppure un cimitero indiano su cui è stato costruito un hotel stile “Shining”; sempre ammesso che ciò rientri nell’ambito della “logica”), piuttosto era sufficiente che una diceria iniziasse a spargersi perché tale soggetto venisse etichettato come “maledetto”, “infestato” e via discorrendo. Ricordo diversi luoghi della mia infanzia forieri di tale epiteto e, quindi, di sopracitato tabu. Luoghi che, ovviamente, ho violato assieme ai miei amici. Scardinando proibizioni che, non sempre dettate dalla paura genitoriale (memorabile era il monito di mia nonna a tenermi lontano dai “malvagi tossici” del cimitero, con ogni probabilità ragazzini poco più grandi di me che si facevano qualche canna…), si risolvevano spesso in “leggende metropolitane” la cui origine si perdeva nella notte dei tempi.

Perché sì, perché da bambini ci voleva davvero poco per creare una leggenda metropolitana. E ancor meno ci voleva per far sì che essa si diffondesse. Secondo principi che, estremamente simili a quelli che vediamo ogni giorno nella diffusione di video e/o link virali sulla rete, erano portatori di un romanticismo mitopoietico del quale, sotto sotto, siamo terribilmente nostalgici. L’estrema accessibilità della rete, infatti, e il suo linguaggio tanto veloce quanto bulimico fanno sì che una leggenda metropolitana si diffonda come un fuoco di paglia. Esplodendo nell’immediato con una virulenza pari a quella di un virus pandemico e dissolvendosi con una non troppo differente velocità. Se non propriamente elettrificata, la tabula rasa delle leggende metropolitane sulla rete è, quanto meno, virtuale.

Il romanticismo, però, è una brutta bestia, e se Dio ce lo avesse voluto far superare senza sforzi ci avrebbe miracolato e ci avrebbe fatto spuntare le ali al culo. Quindi vorrei condividere con voi una leggenda metropolitana che mi ha sempre colpito in maniera particolare. E lo ha fatto, lo confesso, per diversi motivi. Da un lato perché si è “portata via” uno dei miei attori preferiti (e non solo, visto che ha anche saccheggiato un “dolce” mito della mia infanzia…spoiler alert!), dall’altro perché è incentrata su qualcosa di usualmente estraneo alle leggende metropolitane, ovvero una sceneggiatura cinematografica. Perché se di case maledette, film “infestati” da oscure presenze, libri demoniaci e via discorrendo ve ne sono a bizzeffe, beh, di maledizioni legate a film mai realizzati vi è discreta penuria.

Atuk

Detto questo, iniziamo a conoscere la “maledizione di Atuk”.

Ma andiamo con ordine.

– Atuk: in lingua inuit (una lingua eschimo-eleutina parlata in Canada, Groenlandia e Alaska), “atuk” vuole dire nonno. E si riferisce a un romanzo satirico del 1963 di Mordecai Richler (l’autore de “La versione di Barney” e di “Solomon Gursky è stato qui”) dal titolo “L’incomparabile Atuk”. La storia, sfruttando la feroce ironia di Richler, si basa sulle vicende di un vecchio e testardo eschimese (Atuk, per l’appunto) che, abbandonati i suoi ghiacci per la caotica Toronto, finisce per trovarsi in situazioni assurde volte a rimarcare le macroscopiche differenze tra la minuscola comunità di eschimesi di Atuk e la sovraffollata e modernissima Toronto. Con la solita sagacia, Richler dipinge un personaggio che avrebbe fatto da capostipite ai testardi e coriacei protagonisti dei romanzi che gli avrebbero dato maggior successo (Solomon Gursky e Barney Panofsky, per l’appunto), unendo la passione per le estreme terre nordiche del suo Canada, rilette in chiave tanto onirica quanto mitica.

– Hollywood: se, parafrasando Bukowski, a Holywood basta gettare un libro fuori dalla finestra per trovare uno sceneggiatore, non dobbiamo stupirci che qualcuno, letto il romanzo di Richler, decidesse di farne saltar fuori una sceneggiatura. Senza gettare il libro dalla finestra, ovviamente. Così, nei primi anni ottanta, diverse case cinematografiche si interessarono al testo, iniziando a proporlo ad attori e sceneggiatori vari. Certo, il romanzo doveva essere passibile di alcune modifiche. A quale americano poteva interessare la storia di un vecchio eschimese calato nella placida Toronto? Così il luogo d’azione si spostò dal Canada agli Stati Uniti; da Toronto alle mille luci di New York. E, come vedremo, anche Atuk cambiò tipologia di personaggio, passando dall’essere un vecchio “inuit” a un eschimese buffo e sempliciotto. Qualche “tuurngait” (gli spiriti demoniaci della mitologia inuit), però, non deve averla presa benissimo. La sceneggiatura divenne, così, oggetto di maledizione. Chiunque vi avesse avuto a che fare non era destinato ad avere lunga vita.

– John Belushi: il primo attore cui fu sottoposta la sceneggiatura di Atuk fu John Belushi. Saldamente sulla cresta dell’onda per film come “Animal House” e “The Blues Brothers”, Belushi lesse la sceneggiatura e ne rimase entusiasta. Più o meno, così:

Convinto di avere per le mani dell’ottimo materiale, Belushi iniziò a ripassare il copione e studiare la parte, ripetendo a molti amici e colleghi di quanto fosse attratto dall’idea di impersonare il più presto possibile il personaggio di Atuk. Poco tempo dopo, però, il buon John morì di overdose, il 5 marzo 1982, nel bungalow numero 3 dell’Hotel Chateau Marmont a Hollywood. Gli fu fatale una dose di speedball tagliata male, iniettatagli dalla cantante Cathy Smith quella stessa notte. Aveva solo 33 anni.

– Sam Kinison: nel 1987 il giovane comico statunitense Sam Kinison accettò il ruolo di Atuk per “lanciare” definitivamente la sua carriera.

(eccolo qui nei panni di un prof. di storia leggermente fissato con la guerra del Vietnam)

La sceneggiatura era stata “parcheggiata” troppo a lungo, così era arrivato il momento di riproporla. Sam iniziò addirittura a girare delle scene, le quali facevano presagire che, di lì a poco tempo, un film vero e proprio su Atuk avrebbe visto la luce.

Peccato, però, che il 10 aprile 1992 (esattamente sei giorni dopo il suo matrimonio), Sam Kinison fu vittima di un incidente stradale mentre era alla guida della sua Pontiac con la neo-moglie. Un mezzo furgonato guidato da un diciassettenne ubriaco li investì in pieno. Poco importa che Kinison avesse addosso tracce di cocaina, tranquillanti e codeina: la morte fu immediata e cruenta, e lo colse a pochi mesi dal suo quarantesimo compleanno. La moglie e l’investitore sopravvissero: si vede che non avevano avuto per le mani la sceneggiatura maledetta.

– John Candy: due anni dopo la morte di Kinison la parte di Atuk passò a John Candy, il comico e attore canadese che, ironia della sorte, aveva lavorato con John Belushi in “1941 – Allarme a Hollywood” e in “The Blues Brothers”. Molti di voi lo ricorderanno per alcuni film “leggendari” come “Balle Spaziali” e “Mamma, ho perso l’aereo”, a me piace ricordarlo per i vecchissimi cartoni animati di “Camp Candy” (cazzo, le mattine passate a bere il caffelatte e a guardare “Camp Candy” prima di andare a scuola…che nostalgia!) e per la sua mitica interpretazione in “Io e Zio Buck”:

(ogni collegamento tra asce di guerra e tradizione inuit è puramente casuale…)

In ogni caso, appena ricevuta la sceneggiatura di Atuk, Candy iniziò a studiarla con attenzione, fiero delle sue origini canadesi e della sua passione per un certo tipo di ironia ben distante dalla banalità televisiva che iniziava a imperare negli Stati Uniti.

Candy, però, morì prima di aver dato alla luce il ruolo di Atuk, il 4 marzo 1994 (il giorno prima del dodicesimo anniversario della morte di John Belushi) all’età di 43 anni. La causa della morte fu una disfunzione cardiaca di carattere ereditario (il padre era morto per infarto a soli 35 anni), di certo non facilitata dai problemi di peso di Candy e dai vizi e stravizi cui sottoponeva il suo fisico.

– Michael O’Donoghue: comico, sceneggiatore e scrittore americano, O’Donoghue è pressoché sconosciuto al pubblico italiano. Tuttavia fu uno degli animatori della rivista “National Lampoon” (quella che ispirò “Animal House”, per intenderci) e del “Saturday Night Live” (lo show che lanciò John Belushi). Avuta per le mani la sceneggiatura di Atuk, Michael la sottopose nel corso degli anni a due dei suoi più cari amici: John Belushi, per l’appunto, e Sam Kinison. La leggenda della maledizione di Atuk non aveva ancora preso piede, quindi c’è da scommettere che a Michael non fosse minimamente passato per l’anticamera del cervello di aver condannato gli amici a un beffardo e malvagio destino. Tuttavia la sua sorte non fu meno macabra: fu trovato morto l’8 novembre 1994 nella sua casa di New York, vittima di un’emorragia celebrale all’età di 54 anni.

– Chris Farley: comico cresciuto con il mito di John Belushi, Chris Farley si è formato a sua volta con il “Saturday Night Live”, ottenendo un discreto successo capace di portarlo dal piccolo al grande schermo. Ci si ricorda di lui per alcune commedie di discreto successo nel corso degli anni novanta, nonché per una spiccata  somiglianza con il sopracitato John Candy (quanto meno per la stazza). Mentre la sua performance elettorale in “La pecora nera” sembra anticipare le convention politiche di Renzi alla Leopolda:

Seguendo le orme di Belushi, quindi, Farley recupera la sceneggiatura di Atuk, iniziando a lavorare sul testo. La triste mietitrice, però, non gli concederà il tempo necessario per terminare il progetto: Farley morì, infatti, il 18 dicembre 1997 a Chicago per un arresto cardiaco in seguito a un’overdose di droghe (combo Candy-Belushi). Aveva soltanto 33 anni. Come il suo mito.

– Philip Hartman: alla maggior parte di voi il nome di quest’attore americano nato in Canada non dirà nulla, ma non credo sarebbe lo stesso se prima vi trovaste a guardare questo breve video:

Philip Hartman, infatti, è stato il doppiatore americano dell’avvocato Lionel Hutz e di Troy McClure ne “I Simpson”. Matt Groening era così legato alla professionalità e all’ironia di Hartman che lo aveva scritturato anche come doppiatore del generale Zapp Branningan per “Futurama”.La sceneggiatura di Atuk, però, capitò tra le mani di Hartman per mezzo di Farley, il quale gli propose il ruolo di co-protagonista. Pessima mossa.

La notte del 28 maggio 1998 la moglie di Hartman lo uccise nel sonno, colpendolo due volte con una calibro 38. La donna era sotto effetto di cocaina, ed era stata minacciata più volte di divorzio dal marito se non avesse smesso con la dipendenza da alcol e narcotici. In onore del vecchio amico, scomparso pochi mesi prima della messa in onda della serie a nemmeno cinquant’anni, Matt Groening chiamò il protagonista di “Futurama” Philip J. Fry.

– Atuk è vivo e lotta insieme a noi: nonostante le dichiarazioni di fine millennio della United Artists di voler investire sulla sceneggiatura di Atuk, ad oggi il film non ha visto la luce, né si conoscono attori e/o sceneggiatori interessati a prendere parte a suddetto progetto. In compenso, la maledizione di Atuk è stata protagonista di citazioni cinematografiche e di documentari e show televisivi. All’inizio degli anni duemila la sceneggiatura fu messa all’asta su Ebay, ma non è dato sapere se e chi l’abbia comprata.

Si accettano scommesse.

Andrea Gratton

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