Il mito dell’estero
Mi è capitato in sorte di appartenere a quella generazione che si è affacciata al mondo dell’età adulta passando per un portone sul quale campeggiavano, à mo’ di varco dantesco, due scritte incise a caratteri cubitali. Io e tanti altri compari di questa generazione, ora le riportiamo, come fossero tatuaggi, sulla nostra fronte prima ancora che nei nostri angosciosi sogni. La suggestione profonda di questo immaginario tatuaggio ci riserva il privilegio di poterci svegliare ogni mattina senza correre il rischio di scordare i nostri due mantra, mentre ci laviamo i denti allo specchio prima di affrontare le nostre giornate in giro per l’Eldorado luccicante dell’età adulta, appunto.
Due scritte, dicevo. La prima recita: “Prenditi pure la laurea che più ti permette di sognare un mondo migliore e la pace dei popoli, tanto se resterai in questo paese non troverai lavoro, a meno che tu non voglia mettere a repentaglio il tuo equilibrio psichico con 6/7 anni di medicina o ingegneria: Se per sbaglio troverai lavoro farà quasi sicuramente cagare, e comunque abituati ad un lungo praticantato di continue e umilianti sopraffazioni al termine del quale riuscirai a riprodurre perfettamente con la bocca il rumore della fotocopiatrice in tutti i suoi diversi programmi. Postilla: abbiamo accumulato un debito pubblico mastodontico, cazzi tuoi, lo pagherai lo stesso”.
La scritta potrebbe continuare e tu stai già pensando che quando riuscirai ad arraffare un posto nel mondo per 1500 euro al mese (magari) sarai già arrivato al punto di scandagliare ossessivamente le politiche pensionistiche in corso per realizzare, in un bagno di sudore freddo, quanti decenni ancora la tua massima evasione sarà rappresentata da quei 10 giorni a Torbola Marina a casa di tua suocera.
Potrebbe anche andarti meglio, intendiamoci, ma anche peggio.
In compenso durante il resto dell’anno (che forse preferirai ai 10 giorni a Torbola Marina) non smetterai di ripetere a te stesso quanto è progressista ed ecofriendly andare al lavoro in bici (“che generazione rivoluzionaria la mia!”) del resto la macchina costa tantissimo e non parliamo dell’assicurazione, meglio non comprarla.
-cara, però da bambino la domenica andavo spesso con i miei a fare gite nei dintorni, ci sono un sacco di posti interessanti –
– beh evidentemente loro non immaginavano quanto fosse appassionante scoprire palmo a palmo i quartieri meno battuti di questa città così imprevedibile e dinamica che è Milano, e poi noi non abbiamo bambini –
– giusto, non ci avevo pensato. –
– Bene preparati che oggi facciamo un giro a Rogoredo. –
La seconda scritta invece sembra offrire un’alternativa scintillante al deserto angoscioso paventato dalla prima: ‘se andrai all’estero ti si spalancheranno le porte girevoli di un immenso Disneyland Paris delle occasioni lavorative, stipulerai collaborazioni con 4 università statunitensi a un anno dalla laurea e dopo poco sarai sempre diviso tra importanti videobusinesschiamate in Skype, piacevoli pranzi sulla Rive Gauche in attesa di definire gli impegni del mese con la tua giovane segretaria polacca e tante altre favolose occupazioni settimanali.
Le ferie d’estate all’Argentario, (perchè l’Italia è bella e si mangia bene) dove tra l’altro avrai molto piacere di fare un salto a trovare quel tuo compagno di liceo che si era laureato in Scienze Politiche alla Statale e che hai risentito recentemente. “Chissà come se la passa ora, mi ha detto che in quei giorni sarà a ‘Non so che Marina’ ma dice che non ama prendere la macchina durante le ferie, quindi lo raggiungerò io in catamarano, nessun problema.”
L’Estero. Ecco il mito di questa generazione. Un mito dai tratti indistinti, un po’ misterioso e retrivo, come si addice ad ogni mito del resto; solo che questo mito è misterioso non certo per una carica attrattiva evidentemente immaginifica, mutuata magari dalla proposta di un modello alternativo irraggiungibile, fuori dal comune e quindi desiderabile. Non si parla di qualcosa come Hogwarts. Questo mito è prosaico, terreno, fisicamente raggiungibile.
Per inciso: l’esperienza della formazione in un altro paese è forse una delle più preziose risorse che le nostre università mettono a disposizione, sia sul piano formativo, sia sul piano umano. Il progetto Erasmus è certamente uno dei (pochi) grandi successi dell’Europa “unita” (a vostro piacere potete aggiungere un numero indefinito di virgolette). Completare o affinare la propria formazione in un’università straniera è senza dubbio arricchente, oltre che qualificante, per tutta una serie di ragioni su cui non mi sto a dilungare, ma che, credo, risultino abbastanza evidenti a chiunque. A un patto però: che la ragione preponderante di queste scelte formative non sia quella sintetizzabile in ‘se non vado all’estero rimarrò un povero incapace’. Questo ragionamento potrebbe suonare pericolosamente riconducibile ad altri del tipo: ‘se non ho le Hogan, che ne sarà di me?’, o anche, senza per forza cercare un paragone con il fenomeno della moda, ‘se mi scappa ancora un termine dialettale risulterò definitivamente un cafone alla prossima retrospettiva su Truffaut organizzata dal ‘collettivo universitario autonomo’.
Andare all’estero non è di per sé la garanzia pass par tout capace di fornire il patentino internazionale di ‘persona degna di considerazione e riconoscimento sociale’. Non è autoevidente che un’esperienza conceda di default un valore solo sulla base di essere un’esperienza nuova, intrigante, rivoluzionaria.
Attorno all’erasmus, o ogni altro scambio internazionale che sia, si è sviluppata una sorta di retorica mitologica che preconfeziona l’esperienza secondo alcune coordinate tali da consegnare un modello già definito di come dovrà essere ogni singola esperienza erasmus. A questo punto ciò che conta non è tanto il reale apporto in termini di formazione e crescita umana, ma il fatto che alla fine ciascuna esperienza possa essere confrontata felicemente al modello paradigmatico. Pena l’annullamento ontologico dell’esperienza: o è come si dice che deve essere, oppure non è. Un po’ come quei turisti che di fronte ai monumenti controllano meticolosamente che ogni particolare riportato sulla guida corrisponda effettivamente a ciò che hanno davanti agli occhi, per cadere poi vittime di feroci attacchi di panico laddove ci siano discordanze tra la guida e la realtà. Essere platonici causa molte delusioni nelle quotidiane vicende che ci tocca affrontare.
Detto ciò, a chi dobbiamo la genesi di questo mito della contemporaneità? A noi stessi ovviamente. Non voglio imbarcarmi in delicate conclusioni di carattere sociologico, ma ho come l’impressione che sia un comportamento tipico dell’italiano quello di spalare volontariamente letame sull’ingresso di casa propria. E come se non bastasse di compiacersi con eroica suffucienza di questa spalata: “beh lo sanno tutti che questo posto è destinato a morire, lo vivo tutti i giorni sulla mia pelle’. Quindi ecco tutti a ripetersi che stare in Italia è ridicolo, che all’estero non c’è paragone etc etc. Il fatto di dire che l’Italia sia un posto di merda è attualmente il luogo comune più inflazionato subito dopo ‘Gianni Morandi è coprofago’ (voglio la fonte, qualcuno deve indicare l’origine di questa indiscrezione).
Che l’Italia sia un posto di merda (e che a Gianni Morandi piaccia la merda) può essere certamente vero, per alcuni aspetti. Non c’è luogo comune che non abbia un fondo di verità e in questo caso il fondo non è lontano dalla superficie. Stilare una lista dei problemi dell’Italia non è tra gli obiettivi che qui mi prefiggo, né sono la persona più accreditata per farlo, né credo si possa individuare una scala di problemi oggettivamente condivisibile; ognuno tragga un po’ le proprie considerazioni, non è poi così difficile, basta essere stati almeno una volta a pagare una bolletta in posta. Ecco un altro luogo comune, le poche volte che ci sono stato non ho avuto grossi problemi, ma comunque la coda alle poste è un buon esempio di disservizio che può essere declinato a piacere secondo svariate situazioni ed entità.
Il sospetto è che dietro alla perentoria esclamazione ‘è arrivata l’ora di andarsene, questo è un posto di merda e io sto perdendo tempo’ si celi (ma neanche troppo) una considerazione a cui è negato automaticamente l’accesso al pensiero cosciente, ma che tuttavia in sporadici attimi di lucidità cerca di affiorare in superficie: ‘e se invece non fosse un po’ anche merito mio se qui mi trovo di merda?’
Quando non si possono spiegare le ragioni di un fallimento o di una situazione indesiderata bisogna in qualche modo trovare un oggetto alla propria frustrazione: ‘mi hanno bocciato perché quell’assistente è un paranoico maniacale che in quel momento voleva sfogare le proprie frustrazioni su di me’; l’università italiana sembra ammorbata da simili paranoici, almeno stando alle leggende di corridoio. È molto complesso e doloroso cercare in se stessi le cause di un generico fallimento o di una situazione poco soddisfacente, molto più semplice attribuire tutto alla cattiveria di un mondo infame o al fato che, ovviamente, ce l’ha con me o, perché no, alla Casta .
Non voglio dire che chiunque vada all’estero lo faccia per sfuggire ai propri fallimenti, il ventaglio dei differenti casi è molto ampio ovviamente. Voglio però sottolineare che dietro l’andare all’estero è spesso millantata una favola di scintillante rigenerazione che ha una sinistra affinità con quella delle confezioni di biscotti del Mulino Bianco.
Uno dei drammi della vita di ciascuno è fare i conti con il divario inseparabile che le nostre convinzioni, idee e proposte intrattengono nei confronti del lato pratico/concreto cui esse si dirigono. Ciò che funziona sulla carta o nella testa oppone talvolta tenace resistenza ad una felice applicazione in strada. Tanto è vero che i biscotti Mulino Bianco li troviamo appena dopo il risveglio dai sogni e prima di scendere in strada, quasi come per traghettarci verso la materia attutendo il gradino.
Di fronte alla scoperta di questo doloroso aspetto della vita ci sono due opzioni: la prima è dire di no alla realtà, quindi farsi tatuare una frase a caso di Jim Morrison sull’avambraccio e cominciare a sfondarsi di acidi dalla mattina alla sera (se l’idea non vi attrae c’è anche la variante meno autodistruttiva, tipo cominciare World of Warcraft e dire addio alla luce del sole; mi rendo conto che non è meno autodistruttiva).
La seconda è fare i conti con la realtà e accettare che essa pone problemi/soluzioni non tanto perché è cattiva/generosa verso di noi, quanto più perché noi ne partecipiamo contribuendo (anche inconsciamente) a realizzarne sia i lati graditi, sia i lati meno graditi.
Che c’entra questo con la fuga all’estero? C’entra nella misura in cui se si crede che il problema dell’Italia sia l’Italia stessa si va per fragole. Così come se si crede che l’estero sia la valle dell’oro
si potrà anche andare incontro a sonore delusioni, così come a grandi soddisfazioni, chiaramente. Un po’ come in Italia, guarda a caso: può andarti bene, così come può andarti male.
La riuscita di un progetto non dipende esclusivamente dalle nostre possibilità. I fattori esterni sono visibilmente determinanti e quindi alcune caratteristiche del luogo in cui si vive incideranno sul corso delle nostre vite, talvolta in modo indesiderato. Che scoperta sensazionale. Quando mai nella storia si è verificato il contrario? Forse prima che Adamo ed Eva si facessero tentare da quel delinquente a sonagli. Ci sono nutriti gruppi di persone in molte lande desolate degli States che giurano sulla storicità di quell’episodio. Consiglio di trasferirsi in Ohio se si desidera approfondire la faccenda.
Giordano