Scuola

L’errore dello studente universitario

L’università era finita il giorno stesso in cui era finito il lavoro in Italia. Non credo fosse una coincidenza. Prima non ce n’eravamo accorti per colpa della burocrazia associata alla tesi di laurea.

Lo studente universitario medio, durante il suo percorso di studi, consuma un quantitativo di caffè sufficiente a sedare il craving da cocaina di Max Pezzali (se ne facesse uso).

Studente universitario

Bevete con moderazione

Durante le pause alla macchinetta i discorsi vertono inesorabilmente attorno a progetti il cui distacco dalla realtà ricorda una crisi psicotica o un pezzo dei Radiohead. C’è quello che vorrebbe aprire una libreria con dentro un bar. Quello che vuole avviare un sito di e-commerce. Quello che tiene un romanzo nel cassetto e sogna di diventare il nuovo Fabio Volo per popolarità, reddito e donne ma Kafka per contenuti.

La stupidità è come una tetta grossa che cominci a succhiare e dopo un po’ ti chiedi cosa stai facendo, ma continui a succhiare perché ti fa felice. Tra gli studenti si instaura una complicità ottusa. Volano i ‘figata piacerebbe anche a me’, i ‘mettiamoci in società’ e i ‘mi consigliate un esame del cazzo di psicologia che devo fare 4 crediti liberi?’.

C’è solo una figura che all’interno dell’accademia che scuote le coscienze degli universitari: l’inserviente che ricarica le macchinette del caffè. Sulle prime fa un po’ pena e un po’ di tenerezza, la sua vita in fondo è molto più dura della vostra. Come Saviano. Poi un giorno ci parli, scopri che la ditta è sua e che per tutto Luglio/Agosto le macchinette non verranno ricaricate perché passerà l’estate nella sua casa alle Maldive. Grazie a te che lo compatisci è miliardario. Come Saviano.

Nel momento in cui realizzi che non potrai mai guadagnare più dell’inserviente che ogni mattina ti porta il caffè i tuoi ideali crollano. Non è colpa tua, è il mondo a essere sbagliato. Vivi nell’illusione che il mercato possieda una morale. Una notte succede che sogni…

Mercato: bene signor laureato e signor non-ho-un-titolo-di-studio, siete gli ultimi due candidati per quel posto nell’editoria. Lei, gentile laureato, scrive divinamente, italiano pulito e senza errori. Lei, volgare non-ho-un-titolo-di-studio, scrive veramente di merda, gli accenti e le acca sono evidentemente un optional nell’utilitaria della sua grammatica. Tuttavia piace. La leggono e la amano. Sa come arrivare alla gente e farsi comprare. Per questo ho deciso di assumervi entrambi. Non-ho-un-titolo-di-studio sarà la star mentre Laureato sarà l’accademico che nell’ombra corregge gli errori di ortografia.

fabio volo

Cazzo studi?

Ti svegli sudato con un forte mal di testa. La sera prima devi aver bevuto molto e male perché hai l’alito cattivo di chi ha trascorso una notte brava. Vai in bagno con gli occhi socchiusi, una feritoia attraverso cui sbirciare se il mondo questa mattina vale la pena. Costeggi lo specchio senza prestare attenzione alla tua immagine riflessa ma l’inconscio, più forte al mattino, ti fa voltare e non puoi fare a meno di notare il cazzo disegnato in fronte. 110 e gode.

Sorvoli sull’umorismo penoso e capisci che non sei più studente ma nemmeno qualcos’altro.

Ti assale il panico di definirti, per te stesso, per i tuoi genitori, per gli amici e per tua nonna. Prima dell’università potevi decidere di essere qualsiasi cosa ma ora le opzioni sono due: andare a lavorare o specializzarsi in qualcosa.

Comincia il dottorato.

Come nella distopia di Huxley un autoparlante ti ripete che sei la creme della società. Il più istruito. Cosa sei veramente? Sei un personaggio mitologico partorito dalla mente di una generazione di intellettualoidi di sinistra. Le parole e il sapere dovrebbero fare di te un uomo felice o perlomeno riuscito. Purtroppo il mondo là fuori non la pensa come Michele Serra. Gli ideali di felicità e di successo della società moderna sono giovinezza, forza e bellezza. Gli stessi del nazismo e dei tamarri di Ostia.

Durante il dottorato ti lamenti molto. Il troppo lavoro, i pochi soldi, lo scarso riconoscimento, la noia di certe giornate. Ma più di ogni altra cosa ti chiedi perché tu e gli altri accademici avete un’immagine di voi così diversa dalle tinte con cui vi dipinge la società?

Un giorno vai all’estero e cominci a lavorare fuori dall’idiozia italiana. Allora capisci che per quanto puoi raccontartela, l’unico metro che gli altri possiedono per valutarti è quello che fai. Non quello che un pezzo di carta dice che dovresti sapere.

Tu sai esattamente quanto è importante che qualcuno faccia funzionare la macchinetta del caffè.

Allo stesso modo il tizio del caffè, il libraio, il ragazzo che ti faceva ripetizioni di matematica, il bar, la pizzeria, il supermercato, lo spacciatore sotto casa e il tassista sanno quanto tu sei importante per loro. Vali quello che puoi spendere.

Allora senti il bisogno di servire agli altri in qualcosa e per la prima volta ti guardi indietro. Forse definire la propria appartenenza a una categoria, il dottorato, il ricercatore, il professore è una grossolana stronzata. Bisognerebbe descrivere e parlare solo di cose piccole e precise. E presentarsi con quello che possiamo dare agli altri. Immagini chiare e comprensibili invece di macrocategorie insignificanti. Si eviterebbe una certa confusione.

– Ciao sono Belen, showgirl.

– Ciao sono Belen, hai già visto il mio sex tape?

martino belen censored

La madre di mio figlio

Concludi il dottorato ma ora sai che non vuol dire un cazzo. L’unica cosa che conta è se quei tre anni ti hanno permesso di imparare a fare qualcosa che serva agli altri.

Se sono serviti solo a te ti auguro di essere molto ricco.

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