Socrate
A volte, dopo aver scolato svariate birre e liquori vari, mi capita di addormentarmi sul divano di casa e sognare Socrate. Lo so, direte voi, che banalità! Oramai non c’è più un cavolo di hipster che, senza nemmeno l’ausilio degli alcolici, non rivendichi su Facebook incontri onirici con il fantasma di David Foster Wallace intento a spiegare il significato intrinseco di Infinite Jest. Tuttavia, banali o meno, i miei incontri etilico-notturni con Socrate sono qualcosa di decisamente tangibile, di cui (e questa è la parte divertente della storia, mentre tutto il resto è noia) vorrei rendervi partecipe. Diciamo che non è proprio vero che i miei incontri siano con Socrate vero e proprio. Non conosco personalmente il buon vecchio filosofo ateniese e, nei nostri colloqui (anzi, monologhi, dato che è quasi sempre lui a parlare) onirici, non posso dire che lui si sia mai presentato come Socrate o cose del genere. Tuttavia, considerando i discorsi affrontati, l’aspetto estetico, la fascinazione per le barbe lunghe e bianche e per i giovinetti, mi sentirei di dire che sì, che quello che mi appare in sogno è proprio Socrate. Non vi è ombra di dubbio. Devo anche aggiungere che, dopo la prima apparizione (seguita da un risveglio post-sbronzesco di notevoli dimensioni: dio stramaledica il London dry gin del discount), sono andato a controllare il vecchio dipinto di Jacques-Louis David (cristo santo, sembra il nome di un parrucchiere!) intitolato La morte di Socrate così da poter fugare ogni dubbio in merito: l’uomo che si appresta a bere la cicuta nel dipinto del pittore francese è identico all’uomo che mi appare in sogno nelle mie notti moleste e che, senza colpo ferire, mi dispensa ineffabili perle di saggezza. In poche parole, sogno ripetutamente Socrate.
Va subito detto che, caso strano, il “mio” Socrate non porta alcuna toga modello ateniese. Si limita a un paio di pantaloni sdruciti e una sudicia t-shirt dei Clash. Tant’è che, quando in sogno ho provato a chiedergli se anche a lui piacesse Joe Strummer (una delle poche domande che mi sono sentito di fargli), il buon Socrate mi ha risposto con un laconico «non ho la più pallida idea di chi sia questo Joe e qualcosa simile». Al che ho preferito bypassare completamente l’argomento, evitando di chiedere al me stesso sognato perché diavolo il mio Socrate onirico portasse una t-shirt dei Clash. Tuttavia il buon Socrate onirico mi appare in sogno e, senza farsi troppi problemi, inizia a snocciolare massime su massime, declinando il tutto con la sua cadenza musicale ma decisa. Che davvero, nel solo sentirlo parlare, la mente mi si riempie di un suono dolce che ascolterei per ore. E che, dai miei padiglioni auricolari, quasi scende al cavo della gola. Tant’è che non capisco se la dolcezza che sento è data dalla pregnanza delle parole di Socrate o se, più prosasticamente, si tratta del conato di vomito made in vodka Rachmaninoff (spero non imparentata con il noto pianista e compositore) che mi si crea in bocca nel bel mezzo della notte. Insomma, fatta la tara delle sofferenze etiliche notturne, le apparizioni oniriche di Socrate sono qualcosa d’indescrivibile.
Di solito la scena avviene in una qualche località bucolica o agreste, in perfetto stile Grecia antica. Con il buon vecchio Socrate che mi appare all’improvviso con quella sua maglietta dei Clash e, senza nemmeno salutare, inizia a parlare dei massimi sistemi dell’universo così come l’italiano medio, al bar, parla del modulo della nazionale di calcio o del processo Mills o del delitto di Cogne. Altre volte, invece, lo scenario è prettamente cittadino e quasi sempre si tratta di città sconosciute e immaginifiche come quelle del Piranesi. Con architetture assurde e improbabili, e la precipua caratteristica che sì, che al mondo ci siamo solo Socrate e io. E nessuno più. Di tanto in tanto, nel sogno, Socrate si fa un goccetto di birra. La beve a canna, perché dice che se Diogene faceva il figo bevendo l’acqua di fonte dal cavo delle mani per vantarsi di non avere bisogni materiali, lui poteva benissimo scolarsi una birra dalla bottiglia di vetro. Non ho mai capito la consequenzialità di questa sua affermazione, ma tant’era. Perché, così come per l’argomento Joe Strummer, anche su Diogene non era il caso di fare troppo domande, che il mio Socrate onirico era sì saggio, tuttavia aveva l’aria di essere un buon tiratore di sganassoni e scappellotti. Che se gli facevi girare i cosiddetti, bè, non avrebbe esitato a regolare subito la questione. Ricordo che, a tale proposito, avrei follemente voluto che nel sogno intervenisse Renato Brunetta. Ve lo immaginate Socrate che, all’ennesima cazzata del Renatino nostro, gli tira un sonoro coppino (d’altronde l’altezza è quella, poco da fare) apostrofandolo con un solenne Taci, asino? Tuttavia, con mio enorme dispiacere (?), Brunetta non è mai apparso nei miei sogni e il mio Socrate onirico non ha mai avuto il piacere di tirargli un bel coppino robusto. Di quelli che schioccano per un paio di minuti buoni, per intenderci. In ogni caso i discorsi del mio Socrate onirico erano dei più svariati. Si poteva passare dalle discussioni tecniche sul metodo maieutico alla ricetta della moussaka perfetta. Dalla declinazione del valore filosofico del daimon alla finale del campionato europeo di calcio del 2004 (Socrate mi confessò di esser sempre stato certo che l’allenatore della Grecia Otto Rehhagel fosse in realtà la reincarnazione di Hegel, unico cruccio di quella rocambolesca vittoria). Dalla maledizione dei sofisti (mangiasoldi del cazzo! li chiamava spesso Socrate) alla maledizione della Troika (mangiasoldi del cazzo! li apostrofava a sua volta, denotando uno strano parallelismo tra sofismo e finanza creativa o una certa mancanza di fantasia).
Di tutto ciò di cui mi parlò il mio Socrate onirico nei nostri deliri notturni, per dirla alla Wittgenstein, è meglio tacere. Un po’ perché sono cose nostre, personali, che se davvero volessi fossero di pubblico dominio, bè, le avrei già scritte in qualche status facbookiano, dove l’oscenità del “fuori dalla scena” ha di gran lunga sdoganato la libertà di parlare di ogni singola minchiata. Dalla descrizione delle proprie polluzioni notturne alla possibilità di evocare incontri erotici mai avvenuti, che se davvero l’esistenza dell’uomo medio fosse quella descritta dalla sua pagina social, bè, di certo Youporn non sarebbe il sito più visto dell’intero universo. Vi è, però, una massima di Socrate (lui non se l’è mai attribuita tuttavia, nei nostri ultimi incontri, ci teneva molto a ribadire il concetto) che vorrei condividere con voi e che, nell’ultimo post sbronza (questa volta tutta farina del sacco della Fonsbräu, mitica birra in bottiglia di plastica che erode i polimeri plastici per depositarli in parti eguali sul fegato e sulla corteccia celebrale) mi ha fatto riflettere a lungo, con parallelismi italioti insperati ma fruttuosi. Il buon Socrate, infatti, sudicia t-shirt dei Clash calata addosso, iniziò a ripetermi allo sfinimento una vecchia massima greca, ovvero «Γνῶθι σεαυτόν» (prima la scrivo in greco, sia mai che qualche tamarro se la voglia tatuare sul polpaccio o sul bicipite che fa molto macarra-hipster), che significa “conosci te stesso”. Il motto, che campeggia sul tempio dell’Oracolo di Delfi, era così caro al mio Socrate onirico che, nel congedarsi, aveva smesso di salutarmi con un cenno della mano, prendendo a ripetere in continuazione quel “conosci te stesso” (in puro stile Nonno Simpson) il quale, alle mie orecchie, iniziava a risuonare come un mantra. Tant’è che, nei risvegli etilici delle giornate successive, non capivo mai se era l’alcol a battermi selvaggiamente in testa oppure se era lo strascico dell’eco delle parole di Socrate.
Voglio essere sincero con voi, cari amici de L’Oltreuomo, la prima interpretazione che diedi del “conosci te stesso” rapportata al sogno fu prettamente di carattere sessuale. Fedele a un mix tra Sigmund Freud e Woody Allen, infatti, pensai che il mio Socrate onirico volesse prodigarsi in un elogio della masturbazione (dopotutto, come insegna il vecchio Woody «la masturbazione è sesso con qualcuno che si ama») da risolversi però in una chiave di consapevolezza del proprio corpo e profondità intellettual-sessuale o cose del genere. Tuttavia scartai ben presto tale interpretazione, convinto che il mio Socrate onirico non avesse tempo da perdere per apparirmi in sogno e declinare un semplice elogio masturbatorio. Preferendo magari cedere tale impellenza a qualche incarnazione onirica presa a caso tra gli attori degli sterminati b-movie italiani noti con il nome di “commedia sexy”. In ogni caso, più Socrate mi ripeteva allo sfinimento il sopracitato motto, più la mia riflessione si faceva profonda e circostanziata e, da una banale e psicanalitica lettura sexy-pop, andava ampliandosi alle più vaste sfere della società italiana. Fosse essa politica, artistica, sportiva o intellettuale. Perché sì, perché la verità cui giunsi dopo decine e decine di apparizioni socratiche e di sbronze conseguenti (che a voi posso ben dirlo che, a furia di ricercare “me stesso”, ero finito con il consumare la maggior parte delle marche di superalcolici da discount e, causa deficit economico, sarei ben presto dovuto passare ai vini in cartone) era ben lungi dall’essere vicina alla precedente teoria masturbatoria, incentrandosi completamente su una vecchia e atavica pratica italiana che, con l’andare del tempo, ha assunto i contorni della piaga nazionale. Questa pratica (che declino all’inglese, dato che il corrispettivo termine italiano “polifunzionalità” mi sembra lo slogan di una qualche setta religiosa; della serie: entra anche tu nella grande famiglia di ********gy e trova la tua “polifunzionalità”!) assume il nome di “multitasking”, ed è la causa della maggior parte del declino delirante della cara vecchia società italica e dei rapporti sociali che la contraddistinguono e regolano. Intendiamoci, non che il ventennio berlusconiano, il retaggio dei vecchi democristiani, le ladrate socialiste o l’endemica mancanza di palle dei partiti post-PCI non abbiano le loro colpe, tuttavia sono sempre più convinto che, alla base di questa decadenza, il concetto di “multitasking” abbia una buona dose di responsabilità. E che possa ben servire anche per leggere le sopracitate vicende. Il concetto di multitasking, infatti, è la negazione stessa del “conosci te stesso” di socratica memoria. La sua nemesi (“Νέμεσις” per i macarra-hipster), in sostanza. Perché sì, perché se il mio Socrate onirico, sulla scorta dell’Oracolo di Delfi, mi invitava a conoscere me stesso così da padroneggiare i miei limiti (e non semplicemente il mio cazzo, come pensai di primo acchito) e sfruttarli a mio vantaggio per accrescere le mie qualità, la pratica del multitasking invita invece a dedicarsi a tutto ciò di cui si ha voglia/desiderio/presunzione di padroneggiare, con l’ovvia conseguenza che i limiti stessi vanno a farsi fottere. Così come la conoscenza delle nostre capacità e qualità.
La società italiana contemporanea, infatti, è l’esempio lampante di quest’assenza di capacità di comprendere i limiti entro i quali muoversi. Eleggendo, così, dei campi d’azione che valorizzino le nostre qualità, permettendoci di esprimerle al meglio. Van Gogh era un pittore, non un elettrauto. Chet Baker era un musicista, non un regista di videoclip. Garrincha era un calciatore, non un modello imbellettato di gel e lustrini. Insomma, i grandi del passato hanno sempre conosciuto gli spazi entro i quali muoversi, mentre a noi, per somma negazione socratica, è toccata l’invasione d’individui multitasking che, lungi dall’averne le capacità (chi negherebbe mai la poliedricità di un Pasolini o di un Andy Warhol?), occupano spazio, tempo e gonadi. Che dire dei dj/scrittori/attori/presentatori e chi più ne ha più ne metta? O dei politici/scrittori/giornalisti/organizzatori di eventi/volontari (mancati) in Africa? O degli imprenditori/piduisti/mafiosi/evasori fiscali/presidenti di squadre di calcio/monopolisti dell’informazione/presidenti del consiglio/pregiudicati? La prima reazione, poche storie, è quella di dire: dio santo, lasciate qualche ruolo anche a noi, che sennò siamo costretti a navigare a cazzo su internet alla ricerca di qualche nuova assurda professione, tipo recensore di birre ignoranti o sociologo per L’Oltreuomo e via discorrendo. Con la discriminante che sì, che a fare il multitasking modello Veltrusconi qualche soldino lo si prende (per inciso, potrei andare avanti all’infinito con gli esempi), mentre a scriver di sociologia per L’Oltreuomo o di birre ignoranti per qualche sito, ben che vada ci si prosciuga il conto in banca e si anestetizza il fegato.
Detto questo, per sfatare tutte le teorie peggiorative post-socratiche e confutare il secondo principio della termodinamica
( per i macarra-hipster appassionati di math-rock), vorrei parlare di una categoria artistica che, negli anni passati, ha rappresentato l’essenza stessa del “conosci te stesso”, dimostrando come, in Italia, fosse possibile dedicarsi a una cosa sola riuscendo nell’ardua impresa di farla nel migliore dei modi. Ottenendo, al contempo, un ottimo esito sia di pubblico che di critica. La categoria in questione è quella degli attori “caratteristi” che, per più di due decenni, hanno contraddistinto la commedia all’italiana (cari radical-chic/aristo-dem dei miei coglioni, per dirla alla Pazienza non siete voi che avete sdoganato la commedia all’italiana, è lei che vi ha sdoganato pigliandovi per il culo in tempi non sospetti, “Contessa Serbelloni Mazzanti Viendalmare” docet!) con i loro personaggi monodimensionali e sempre uguali a se stessi («Γνῶθι σεαυτόν”, mate!» direbbe il buon Socrate con addosso la t-shirt dei Clash…), figli della commedia dell’arte e del teatro comico di italica tradizione. Altro che i personaggi buoni-non buoni o cattivi-non cattivi dei film paraculi di Wes Anderson! I caratteristi italiani erano fedeli alla linea in tutto e per tutto e, una volta assunto un ruolo, lo portavano a compimento dalla A alla Z. Immutabili nella loro personale Stalingrado artistica! Perché sì, perché di questo avevamo e abbiamo bisogno, ovvero di individui decisi e affidabili, più sicuri del regalo di Babbo Natale il 25 dicembre quando si è ancora bambini. Perché siamo stanchi di novità. Perché in un mondo così rutilante dove il futuro è più figlio del caos che dell’incomprensione, la saturazione stessa dei ruoli più che una cagata pazzesca è qualcosa di dannoso e pestilenziale. Un po’ come una campagna elettorale spam del PDL o i franchi tiratori del PD.
Detto questo, preparate le lacrimucce, ecco a voi i cinque caratteristi che ho scelto per animare i vostri futuri deliri onirici post-socratici:
– Renzo Montagnani: noto al grande pubblico per aver interpretato il mitico barista Necchi in Amici miei – Atto II° di Mario Monicelli (chi non ricorda la scena dello scarto di consonanti Necchi-Becchi nonché l’incredibile maieutica di socratica scuola per far capire al buon Necchi che la moglie lo tradiva con tale Verdirame Augusto da Brescia?), Renzo Montagnani è forse il caratterista meno caratterista dei cinque che ho scelto. Attore poliedrico prestato alla commedia sexy e trash (interpretò decine e decine di titoli negli anni ’70 e ‘80), Montagnani ha sempre sacrificato il suo talento (effettivo, non fittizio, non a caso recitò accanto a Gian Maria Volonté ne I sette fratelli Cervi) pur di poter lavorare il più possibile, così da mantenere le costose cure del figlio ricoverato in un ospedale londinese. Montagnani è la quint’essenza del caratterista non solo per mestiere, quanto più per necessità. Resosi conto delle (legittime?) aspettative del suo pubblico, Montagnani decise di calarsi alla perfezione in quel ruolo pur sapendo di poter ambire ad altri scenari. Il tutto per restare fedele non solo a se stesso, quanto più alle sue responsabilità di padre. Montagnani è l’Emilio Salgari dei caratteristi. Il travet della commedia sexy all’italiana. Di lui ci restano le memorabili interpretazioni in La soldatessa alla visita militare o ne Il ginecologo della mutua, degni rappresentanti di quel filone trash del cinema italiano troppo spesso guardato con sospetto se non fastidio dall’intellighenzia italica, pronta a stroncare film ludici pressoché privi di pretese e a incensare mappazzoni pseudo-intellettualistici capaci di durare l’attimo esatto di un martellamento gonadico plurimo.
Frase mitologica che vale una carriera: «Parla, puttana!» (il Necchi alla figlia del conte Mascetti in Amici miei – Atto II°, 1982).
– Giuseppe Anatrelli: se a molti il nome “Giuseppe Anatrelli” dirà ben poco, lo stesso non è per quello del geometra “Luciano Calboni”: il personaggio più famoso interpretato da Anatrelli. Calboni è il geometra collega del ragioniere Ugo Fantozzi nella Megaditta. Classica nemesi del personaggio di Villaggio, Calboni è lo smargiasso prepotente e donnaiolo che vitupera il ragioniere Fantozzi con ogni tipo di angherie. Alzi la mano chi, nel suo privato, non conosce un Calboni? Nessuno! Calboni è una figura mitologica, presente in ogni compagnia/posto di lavoro. Il classico bullo che millanta conoscenze tanto altolocate quanto fittizie (indimenticabile la scena in cui, a Courmayeur, ordina al malcapitato barista due “soliti”, sentendosi rispondere «quali “soliti”?», testimonianza tangibile della sua “cacciapallaggine”), nonché capace di far saltare qualsivoglia incontro galante o di prostrarsi a mo’ di zerbino davanti al potente di turno, salvo poi rifarsi su amici e/o sottoposti, nella ben nota tradizione italica. Calboni è l’amico che tutti noi abbiamo e che nessuno vorrebbe avere. Quello che non vorremmo mai essere ma che, spesso, siamo. Anatrelli, con la sua aria da guappo napoletano, ha dato anima e corpo a questo personaggio riuscendo nella non semplice impresa (specialmente nel mondo del business cinematografico, dove i personaggi sono ben più importanti degli attori che li interpretano) di far aderire in maniera pressoché totale il volto del geometra Calboni al suo. Tanto che, alla sua morte, dopo averlo sostituito per un film con il pur bravo Riccardo Garrone (noto ai più per essere stato San Pietro nello spot di un arcinoto caffè), gli autori della saga di Fantozzi decisero di eliminare dalle scene il geometra Calboni, privando così il buon Fantozzi della sua contropartita naturale. Con la sua morte scompare anche la possibilità di reperire l’indirizzo del notorio night club L’ippopotamo, vero e proprio archetipo di ogni night club che (non) si rispetti.
Frase mitologica che vale una carriera: «Puccettone!» (da accompagnarsi a torsione capace di far incancrenire una guancia, in Fantozzi, 1975).
– Angelo Infanti: uomo dal fascino misterioso e dal viso perennemente “affamato” (barba incolta docet), Angelo Infanti è conosciuto soprattutto come attore di film di genere (in particolare western all’italiana e poliziotteschi). Pochi sanno, però, che ha avuto anche l’onore di recitare per Francis Ford Coppola ne Il Padrino, in cui ricopre il ruolo di Fabrizio, la guardia del corpo che tradirà Michael Corleone causando la morte della prima moglie Apollonia. Tuttavia, i personaggi che ne hanno caratterizzato la carriera sono sostanzialmente due (o meglio, uno solo, dato che il ruolo è pressoché identico) e sono legati indissolubilmente al Carlo Verdone degli inizi. Quello della parlata romanesca e delle gag che riuscivano a spiegare un Paese intero senza però passare attraverso il filtro del buonismo o del politically correct delle ultime prove registiche. I personaggi in questione sono il seduttore Raoul in Bianco, rosso e Verdone e il mitico Manuel Fantoni in Borotalco. Chi non ricorda, infatti, il mitologico playboy Raoul, intento a cambiare la ruota dell’auto di Magda, la frustratissima moglie di Furio (quello che chiama il “Servizio percorribilità strade” per avere informazioni sull’aria depressionale di 982 millibar, per intenderci…)? E il corteggiamento “automobilistico” di autogrill in autogrill, con il passaggio “a volo rasente” solo per farsi notare dalla virtuosa Magda? L’evoluzione di Raoul è, appunto, l’ancor più mitologico Manuel Fantoni, vero e proprio Oscar Giannino ante litteram («Nun è vero niente! T’ho raccontato un sacco de fregnacce!», già che ci sei, Oscar, mi spedisci un paio di lauree da Chicago?). Uomo capace di inventarsi una vita mai vissuta, arricchendola di aneddoti impensabili e vicende avventurose in grado di ammantare ancora di più quell’aria da seduttore scafato, vero e proprio MILF hunter degli anni ’80. Pur non sapendolo, con i suoi personaggi Angelo Infanti è stato l’archetipo stesso del futuro playboy esotico-ricercato, quello della «vita vissuta in tre continenti», delle storie esagerate, della barba (fintamente trasandata) curata nei minimi particolari, della chitarra sempre a tracolla, dell’ascella pezzata su t-shirt da centinaia di euro. Personaggi più costruiti di un Lego Technic (per altro, ve li ricordate i Lego Technic? Negli anni ’90 avevano già i mini computerini che però non funzionavano una mazza!), insomma, accomunati al buon Manuel Fantoni da un semplice e banalissimo concetto: la noia. «Allora sogno, divago…» evoluzione perfetta del «faccio cose, vedo gente…» di morettiana memoria. Dai radical chic agli etno-playboy da spiaggia. Gli anni ’80 avevano già spiegato tutto.
Frase mitologica che vale una carriera: «E così un giorno me ne uscii da casa, me ne andai a Genova e m’imbarcai su un cargo che batteva bandiera liberiana. Che cosa trasportasse quel cargo, non l’ho mai capito… » (Manuel Fantoni a un esterrefatto Carlo Verdone in Borotalco, 1982).
– Guido “Dogui” Micheli: diciamolo subito, via il dente via il dolore: imprenditore lombardo per imprenditore lombardo, se in questo ventennio al posto del B. nazionale avessimo avuto il buon Guido “Dogui” Micheli come presidente del consiglio, bè, poche storie, magari l’economia e lo stato sociale sarebbero andati a scatafascio lo stesso, però ci saremmo divertiti molto, molto, molto di più. Il Dogui, per chi non lo sapesse (eretici!), è il “cumenda” lumbard per antonomasia. Protagonista di decine e decine di film trash degli anni ’80 e ‘90. Uomo appartenente alla classe dei “nuovi ricchi” made in the eighties, il Dogui disprezza il sottoproletariato urbano e umilia palesemente i suoi sottoposti («hai visto l’animale come è andato via scodinzolando?»). Crede nella divisione di classe e considera la ricchezza esibita il solo status symbol degno di nota e approvazione. Il “cumenda” lavora come un cane solo per poter passare delle vacanze dedite allo scialacquo e all’esagerazione, vero e proprio capostipite di un’intera Billionaire generation fatta di starlette da quattro soldi, arrivisti, papponi, Ruby Rubacuori e Emilio Fede vari. Il Dogui, però, a differenza dei suoi pronipoti, possedeva un’anima che lo faceva essere tanto ironico e divertente quanto caustico ed efferato. Non vi era in lui la rabbia dell’arrivista sociale, bensì la spavalda sicurezza del milanesotto gonfio di grano che poteva permettersi di recitare e continuare a gestire uno studio odontoiatrico (storia vera) nel tempo libero. Il Dogui non era un semplice caratterista: il Dogui era il Dogui tanto sul set quanto nella vita reale. Personaggio così vero da apparirci costruito, il Dogui ha avuto un’esistenza al cui confronto le parti recitate erano semplici cammei di poco conto. Capace di lasciar scritto sulla sua lapide “SEE YOU LATER”, il buon Guido Micheli è riuscito a seminare oltre che Alboreto («Via della Spiga-hotel Cristallo di Cortina 2 ore, 54 minuti e 27 secondi: Alboreto is nothing!») anche la triste signora con la falce e il cappuccio nero dato che, ogni volta che vediamo ben altri “cumenda” decidere le sorti del Paese, rimpiangiamo il caro e scorrettissimo Dogui. Come diceva Aristotele, «meglio l’abbronzatura perenne che il cerone e la testa asfaltata».
Frase mitologica che vale una carriera: «Non so se avete visto? C’è un’adunata di maiale brade, tutta roba DOC e autentica, elasticata. Io perché sono già impiantato, sennò a quest’ora ero già in groppa!» (in Montecarlo Gran Casinò, 1987).
– Mario Brega: proprio nel sopracitato Montecarlo Gran Casinò avviene una delle “combo” più letali della storia del cinema trash e di genere italiano: l’incontro tra il “milanesotto” Dogui e il “romanaccio” Mario Brega (sulla cui introduzione non mi dilungo troppo per carità di patria, che non conoscere Mario Brega è come non sapere chi ha scoperto l’America o la penicillina…). Il tutto avviene nel porto di Montecarlo, dove il “cumenda” lumbard si trova a bisticciare per un parcheggio (c’era una volta lo yacht, o “yogurt” come lo chiama il Mario nazionale, ora ci sono i SUV) con il cafone arricchito Mario Brega, finendo in un epico scontro tra gergo romano e milanese risolto a colpi di «A cafonàl!» e «Uè, animali!». Insomma, il meglio del peggio del campanilismo italico (talmente assurdo da essere reale al CentoxCento come il buon Alex Magni) in un paio di minuti di cinema trash di altissimo livello (mi si passi l’ossimoro). Cosa dire, quindi, del buon Marione Brega che non sia già stato detto? Attore di spaghetti western per Sergio Leone, caratterista d’eccezione con la sua parlata romanesca, spalla attoriale irrinunciabile del Carlo Verdone degli inizi, Mario Brega è l’archetipo del romano “de core”, indipendentemente dalla classe sociale che si trova a dover recitare. Verace, sanguigno, fisico in ogni sua azione, Mario Brega è l’essenza stessa della genuinità romanesca tanto sembra uscito da una poesia di Trilussa o da una trattoria di Trastevere, la camicia ancora macchiata di sugo. Le sue interpretazioni sono sempre state interpretazioni di pancia più che di testa, come se fosse il film a dover prendere le misure al suo personaggio che, in caso contrario, sarebbe scattato fuori dal set, assestando due bei ganci allo stesso regista. Lasciandolo lì, senza alcuna possibilità di rivalsa, con il setto nasale distrutto e tutte le mucose frantumate. Al che non vi sarebbe un solo «Alzate, a cornuto!» capace di ristabilire l’idillio totale tra la rigidità della macchina da presa e la genuinità del caratterista, il quale non vive per recitare, ma recita per vivere (e non in senso economico…). Perché la bellezza della dedizione alla propria essenza è quanto di più rivoluzionario possa esserci, e non ha bisogno di fronzoli o orpelli per manifestarsi. Piuttosto, soltanto di spazio. Di aria. Di ampi campi lunghi cinematografici. Di unicità. Perché è nell’unicità che il molteplice sopravvive. E non viceversa. Perché la dedizione stessa, come la mano di Mario Brega – Er Principe «po esse fero e po esse piuma». Sta a chi la possiede il libero arbitrio di esercitarla nel migliore dei modi. Perché l’arte «non è un mestiere, è una galera».
Frase mitologica che vale una carriera: «A me fascio? Io fascio? A zoccolè, io mica so’ comunista così, sa! So’ comunista così!» (Mario Brega, mani tese al cielo, rivendica la sua appartenenza politica a una ciancicante Isabella De Bernardi in Un sacco bello, 1980).
E così siamo giunti alla fine, caro Socrate onirico con la t-shirt dei Clash. Non so se sia colpa del clima o delle poche sbronze prese negli ultimi giorni, ma è da diverse sere che non mi appari più in sogno, e io mi trovo spiazzato. Vorrei pensare che la tua assenza sia dovuta al fatto di una mia presa di coscienza rispetto alla tua missione, ma mi sa che, semplicemente, te ne sei andato verso altri lidi. Ad apparire a nuovi individui (questa volta, magari, di sesso femminile) così da protrarre la tua lezione sul “conosci te stesso”. Un po’ come il caro vecchio Robert Englund – Freddy Krueger in Nightmare, insomma, restando in tema di caratteristi. La verità è che ciò che mi hai lasciato è un insieme d’immagini e idee (spesso incomplete, che ben ve ne sarebbero di altri caratteristi da citare, a partire dal buon Carlo Monni che, con la scusa del «pagare, biondino!», si tromba la mamma di Benigni, finendo con il mitico Bombolo, e molti, molti altri…) che mi comunicano come un’inadeguatezza a tutto ciò che sta accadendo attorno a me. Come se per decenni abbia sempre pensato di ballare il valzer su un Titanic che affondava. Salvo scoprire poi che il Titanic sta affondando in quest’istante, e ciò che ballavo una volta non era un valzer di commiato, bensì una lezione di danza che mi ha portato a comprendere l’approssimarsi della fine solo ora. Ora che i topi se ne sono andati da un bel po’, e che ciò che ci rimane sono soltanto figure sbiadite. Multidimensionali e multitasking, certo, ma sbiadite come vestiti di chi (al mio pari) le lavatrici non le sa proprio fare. E si ritrova con i colori tutti mischiati, e la maglietta che una volta era bianca ora è rosa, e viceversa.
Perché nella multidimensionalità regna tanto la confusione quanto l’assenza, e ciò che una volta era partitico, ideologia, credo popolare, classe sociale e via discorrendo, ora è soltanto società liquida e indistinta. Come le parole dei sofisti, insomma. Come i dati economici dei vari indici azionari. Come la politica italiota. O la non-leggerezza del non lasciarsi cullare in un sogno etilico che ci porti chissà dove. Ovunque, direbbe il vecchio Baud, purché sia fuori da questo mondo. Anche se, in questo mondo, ci stiamo con i piedi ben fissi e piantati manco fossimo alla ricerca continua di ancore di salvataggio. Ancore che, in ultima analisi, ci restituiscano le loro coordinate. Siano pure sbagliate, irricevibili, distanti anni luce dalla nostra stessa vita, poco importa! Ciò che importa è che siano fisse e che, da lì, ci diano la possibilità di prenderci le misure. Di conoscere noi stessi. Di abbandonarci alla nostra stessa dedizione. Insomma, di coltivare quel carattere unico e irripetibile che è il nostro stesso carattere e che, come un Socrate sognato, ci appare tanto assurdo quanto irrinunciabile. Tanto deprimente quanto euforico. Perché, cari amici de L’Oltreuomo, io credo che sarebbe meglio che le mie parole fossero dette “a cazzo”, che lo siano le pagine che mi ospitano, e che la maggior parte dei lettori non siano d’accordo con me e mi contraddicessero, «piuttosto che sia io, anche se sono uno solo, a essere in disaccordo con me stesso e a contraddirmi».
E che la mia, e la vostra, dimensione sia una e una sola. Ma così ampia e creatrice da eliminare ogni confusione. Come una “balla galattica” calboniana, un “cazzotto spacca mucose” breghiano, una “fregnaccia” alla Infanti, una “smargiassata” alla Nicheli. O, più semplicemente, come una linearità incomprensibile alla Montagnani, dove il sacrificio di una vita si redime in un solo, unico, ruolo. Il più impensabile. Il più impensato. L’unico eterno.
Si alzi il sipario.
Il copione va sempre seguito a braccio.
Il regista non avrà voce in capitolo.
È ora di recitare.
È ora, semplicemente, di essere se stessi.
Andrea Gratton