Ci divertivamo così il sabato pomeriggio, dileggiando i malati terminali del reparto oncologia. Ci introducevamo durante l’orario delle visite per intraprendere lunghe conversazioni con i pazienti che attendevano qualche parente o qualche amico. Erano bellissimi nella loro sofferenza, una sofferenza senza alcuna ricompensa, a meno che la morte non si consideri tale. Questi esseri umani ormai prossimi alla data di scadenza erano estremamente vulnerabili quando ci approcciavamo a loro. Era facile avvicinarli con qualche menzogna; ad esempio fingendoci membri di qualche associazione di volontariato o dei semplici cittadini responsabilizzati che si sentivano in dovere di donare qualche ora del loro tempo ai meno fortunati. Instauravamo un rapporto di fiducia con la vittima in pochi minuti, tanto necessitavano di conforto, dopodiché approfittavamo del fianco scoperto che ci mostravano per canzonarli allegramente. Quando poi cominciavano a piangere e a chiamare le infermiere sbraitando, il piacere si mutava in orgasmo. Quelli che davano più soddisfazione erano gli uomini sposati; era bellissimo descriverli
le meravigliose fellatio che le loro mogli avrebbero fatto a ciurme di scapoli dopo la loro morte. Poi scappavamo a gambe levate. Non eravamo cattivi, credo. Forse il nostro comportamento era dettato da un bisogno inconscio di catarsi aristotelica, di purificazione, di sublimazione delle nostre più recondite paure, di esorcizzazione dell’angoscia della morte. O più semplicemente eravamo solo dei poveri stronzi. Che volete farci, era sempre stato questo il nostro passatempo preferito, fin dalle elementari, quando prendevamo in giro i bambini a cui era morto un genitore. Sempre noi tre: Asdrubale, Renato ed io. Inseparabili. Dopo un po’ di tempo però divenne sempre più difficile compiere le nostre scorribande. Ovviamente una volta introdotti in un reparto non potevamo più entrarci, ci avrebbero sicuramente riconosciuto con tutto il clamore che provocavamo. Perciò fummo costretti a lunghe e pedanti trasferte fino a che la noia degli interminabili viaggi in automobile per raggiungere qualche ospedale sperduto non divenne più forte della gioia che ci procurava torturare i terminali. Seguì un lungo periodo di tristezza e di baratro creativo. Un giorno Asdrubale, forse il più geniale tra noi, fu benedetto da Dio con un’idea folgorante. Alcune idee, si sa, viaggiano nel vento, sono sempre accanto a noi; dobbiamo solo avere l’accortezza di fermarci ad ascoltarle per poi farle nostre. Ed anche in questo caso l’idea di Asdrubale era sempre stata lì, sotto il nostro naso, aspettando che qualcuno di noi si degnasse di badarla. Il piano era più o meno questo: stuprare la mia fidanzata per poi costituirci e salire alla ribalta delle cronache nazionali grazie al caso mediatico volontariamente procurato. Mio Dio, il solo pensiero di finire a pomeriggio cinque con la D’Urso che ci intervistava ci faceva tremare di gioia mista ad eccitazione. Magari avremmo conosciuto anche Morelli. Per un attimo pensammo di non farne più nulla perché fantasticare sulla cosa era forse più bello che compierla, come scopare del resto. Ma solo per un attimo.
La settimana successiva, di martedì, stuprammo la mia ragazza in un parcheggio della Conad, un po’ incazzati perché nella colluttazione iniziale la puttana aveva rovesciato una cassa di birra in offerta appena comprata; questo però ci diede la carica necessaria per completare il lavoro. Dopo aver abbandonato la nostra vittima su un carrello della spesa, tornammo a casa mia in attesa dell’arrivo delle forze dell’ordine. Niente da fare, nessuna chiamata, nessuno a sfondare la porta per arrestarci. Niente di niente. Il giorno dopo ci recammo a casa della mia fidanzata per capire cos’era accaduto. Venne fuori che alla vacca era piaciuto un sacco farsi penetrare violentemente dai nostri piselli, e ci implorò in ginocchio di seviziarla ancora, se possibile rincarando la dose di violenza, altro che denuncia. Sconfitti dalla vita ce ne tornammo con la coda tra le gambe nel nostro ammuffito rifugio. Questa volta però Gesù ci baciò subito, perché a Renato venne in mente di cercare un ragazzino affetto da sindrome di Down, picchiarlo violentemente, filmare tutto con una telecamera e pubblicare il video su Youtube. Successo garantito. Frequentammo per un po’ di tempo una cooperativa sociale (le cooperative sono traboccanti di mongoloidi) finché individuammo il soggetto più adatto alla nostra impresa, ovvero quello con lo sguardo che esprimeva più pietà. Una mattina di Luglio, guadagnata la fiducia dei genitori fingendoci dei postini di Maria De Filippi, caricammo l’handicappato sulla mia Punto per dirigerci in un boschetto a poca distanza da casa sua. Una volta linciatolo e filmato, riconducemmo il disagio trisomico a casa, giustificando i lividi ai genitori affermando che erano stati causati da una caduta di Platinette in studio, ma che comunque la registrazione era andata benissimo. Ci fiondammo a casa per uploadare il video sul tubo. Le successive ventotto ore le passammo con gli occhi incollati allo schermo per controllare gli aggiornamenti delle visualizzazioni. Niente da fare: nessuno ci cagava. Forse era colpa del monopolio di Claudio Scazzi, entrato da poco nella scuderia di Lele Mora. Dov’è l’Antitrust quando serve?
Sta di fatto che dopo una settimana di spam in tutti i blog e siti web del mondo avevamo ottenuto solo un centinaio di visualizzazioni. Ma cosa bisogna fare per ottenere un po’ di celebrità? Un esperto di webmarketing contattato via mail ci disse che eravamo arrivati tardi: il cyberbullismo era passato di moda già da sei mesi. Decidemmo di ricorrere all’omicidio come extrema ratio. Almeno un trafiletto su un quotidiano locale lo avremmo ottenuto, cazzo. Renato pensò che la figlioletta di dieci anni di Arturo, il suo dirimpettaio, sarebbe stata una vittima piuttosto abbordabile. Sapeva infatti che tornava a casa da scuola tutta sola e intercettarla durante il tragitto sarebbe stato un gioco da ragazzi. Senza perdere altro tempo, il giorno dopo squartammo la bambina dentro una casetta di legno situata in un parchetto vicino le elementari “Alessandro Baricco”. Questa volta, per evitare che la giovinetta fosse felice di essere stata ammazzata, ci presentammo in questura portando con noi il cadavere. Finalmente ci arrestarono. Ah che gioia infinita. Attraverso le sbarre della piccola cella dove ci avevano rinchiusi, riuscivamo a vedere i furgoncini delle reti televisive che cominciavano ad assediare l’ingresso della questura. Ormai era fatta, per fortuna il giorno prima ero stato dal parrucchiere. Restammo lì, in attesa di essere intervistati, ripresi, assaliti. Sfruttammo quei tempi morti provando tra noi le espressioni da assumere nel momento fondamentale della giornata, ovvero quando ci avrebbero fatto salire su un auto della polizia. Dopo sei ore però avvenne la tragedia. Entrò il commissario e ci disse, con aria rassegnata, che eravamo liberi da qualsiasi accusa. Potevamo tornare a casa. Non potevamo crederci. Perchè? Cos’era accaduto? Saltapadella, così si chiamava il commissario, ci disse che il padre della bambina si era costituito confessando l’omicidio. Com’era possibile? Noi avevamo le prove: il machete sporco di sangue, le nostre impronte su tre coltelli, il cadavere, tracce del nostro sperma nello stomaco della vittima.
“I giornali hanno deciso che l’assassino della piccola è il padre: è molto più interessante un genitore assassino rispetto a
tre cazzoni come voi. Non posso farci niente ragazzi. Mi dispiace tanto” disse Saltapadella. Quel pezzo di merda di Arturo ci aveva inculato alla grande Noi a romperci i coglioni ad assassinare sua figlia, e lui a prendersi tutti i meriti. Sapevo che dovevamo ammazzare un nostro parente, uccidere un conoscente non porta ad alcun risultato. Nei tre mesi successivi il faccione di Arturo occupò tutte le copertine dei giornali e i servizi televisivi. Tra un grado del processo e l’altro riuscì anche a partecipare alla Talpa, classificandosi secondo dopo Padre Fedele. Noi invece, annegammo inconsolabili nella mediocrità.
Questa è la mia storia, la nostra storia: tre amici che non desideravano nient’altro che un po’ di notorietà. Per essere felici, spensierati, ricchi da fare schifo. Ho scritto questo breve racconto autobiografico nella speranza che qualcuno prima o poi voglia pubblicarlo da qualche parte, sperando in un futuro migliore e sorridente, un futuro dove poter stuprare picchiare ed ammazzare senza essere scagionati e abbandonati nel dimenticatoio. In attesa che aprano il nuovo reparto di neurologia nell’ospedale della nostra città.
Di sicuro ti interessa anche:
WIDGET 1