In ricordo del compagno fancazzista
Vedere emergere il secchione è facile, sin dai primi tempi. E se è per questo è ancora più facile scorgere i fancazzisti, i nullafacenti e le più comuni “zappe”, così nominati perché condividono l’impegno cognitivo dell’omonimo attrezzo. A. era visibile sin da subito ma, a differenza di altri, era difficilmente classificabile. Fatico a classificarlo tuttora a distanza di anni. Del resto, quando uno ha l’istinto del campione c’è poco da fare. Quel ragazzo riuscì a dimostrarmi che persino il “non fare una mazza” ha una sua estetica, un suo linguaggio artistico insomma. Ci sono molti modi per fare schifo negli studi, ma solo pochi riescono a fare meravigliosamente schifo: A. sapeva essere questo, un elegante funambolo sempre in bilico tra l’ignoranza e l’insipienza.
Ricordo per esempio la fierezza con la quale affrontava le interrogazioni di latino, inventando mirabolanti scuse.
«Allora A., oggi sei finalmente pronto per le declinazioni?»
«Eh ma sono stato assente due giorni (che tradotto voleva dire che in aula c’era ma aderito con la schiena al soffitto che manco Spiderman) e non lo sapevo che oggi interrogava… »
«Potevi chiamare i tuoi compagni.»
«Ci avevo pensato, ma dei ladri si sono intrufolati in casa mia proprio quando non c’era nessuno, dato che eravamo tutti alla veglia funebre della nonna e del suo ramarro da compagnia, e si son fregati di tutto: gioielli, l’altra nonna, il cellulare che avevo scordato a casa, telefono fisso, email, di tutto! La polizia ha detto che il marchio è inconfondibile, si tratta di una famigerata baby gang lituana. Speravo non avrebbero visto il prezioso libro di latino aperto sulla scrivania, e invece…»
La prof credeva a storie simili? Ovviamente no, ma persino lei sembrava quasi estasiata nell’ascoltarla. Il che vuol dire che A. non evitava comunque il suo bel 3 d’ufficio.
Degna di nota era anche la sua “tecnica proibita del ventriloquo”, in collaborazione con un’altra persona. Durante un’interrogazione dal posto, A. era in grado di assumere le fattezze di un pupazzo e di aprirsi una tasca sulla schiena. A quel punto, un compare seduto dietro di lui infilava una mano e lo manovrava, mentre con la mano libera sfogliava il libro sotto il banco per rispondere alle domande.
La prof ci cascava? Ovviamente no, ma era così divertito dall’ingegno di A. che spesso alzava il voto addirittura fino al 4.
Fu in 3° che giunse il triste giorno, accompagnato dalla pioggia e da una verifica di fisica. Ciascuno di noi se la stava cavando più o meno, sempre a tentoni ma comunque con un minimo di dignità. A. ci stupì ancora una volta, dando prova di una dignità anche maggiore, eguagliata solo dal suo fancazzismo: lo vedemmo scribacchiare qualcosa sulla scheda per poi alzarsi e uscire. Sarebbe stata l’ultima volta che A metteva piede in un’aula. Il prof si avvicinò al suo banco, prese il foglio e lesse ad alta voce:
«Caro prof, le mie scarse capacità intellettive non mi consentono di portare a termine il compito, per cui ho deciso di fare un salto alla macchinetta per prendermi le croccantelle al bacon che mi piacciono tanto. Dica ai miei compagni che hanno la mia benedizione. Cordialmente, il suo alunno mancato A.
P.S. Non credo nei vettori e nemmeno nel moto circolare uniforme»
Il sipario era calato e dentro ciascuno di noi, seppure chino sul compito, fremevano gli applausi. Era davvero l’ultima volta di A nella nostra classe? No, ma quello fu comunque il suo ultimo anno di liceo, e quel messaggio sulla verifica risuona come l’epitaffio di una parabola artistica che, sebbene raramente avesse sfiorato delle sufficienze, per tutti noi e per la nostra scala di giudizio toccava i massimi livelli.