Outlet – la sconfitta di Dio
Dovevo comprare dei jeans nuovi per sostituire quelli che avevo preso dieci anni fa in occasione dell’esame di maturità. Ero in autostrada e volevo spendere poco, ragionevolmente credevo che l’Outlet appena fuori dal casello fosse il modo più indolore per farlo.
Appena scendo dalla macchina percepisco nell’aria una forma nuova di inquinamento acustico: la musica in filodiffusione. Sulle prime sembra essere un simpatico omaggio ai clienti ma presto capisco il disegno diabolico. Tra una canzone e l’altra gli altoparlanti propinano badilate di spot pubblicitari dell’Outlet stesso. Siccome sono uno sprovveduto mi sembra ridondante. Voglio dire, se sono qui è per comprare. Chi può essere così imbecille da recarsi all’Outlet per fare due passi o sfondarsi di aperitivi?
L’Outlet in questione è la ricostruzione in scala 1:1 di un borghetto in cui lo stile palladiano si sposa con la tipica architettura della pianura veneta. Davanti all’entrata principale svetta un maestoso abete addobbato intensamente. Comincio a scorgere i primi bifolchi che volteggiano attorno alla luce delle vetrine.
Da quello che ho potuto constatare, il fruitore tipo dell’Outlet è l’uomo povero economicamente e d’intelletto. Quello che ha bisogno di acquistare prodotti di marca (povertà intellettuale) che non può acquistare a prezzo pieno (povertà economica). La griffe è ambita perché sottolinea il proprio potere d’acquisto. Necessità peculiare dei ceti medio bassi o delle persone che svolgono lavori di scarso prestigio sociale. In sostanza la griffe si sostituisce al cartellino del prezzo che sarebbe inelegante lasciare attaccato al prodotto tessile.
L’Outlet lusinga promettendo quello che non potresti avere nel mondo normale. A quel punto ho cominciato a sentirmi a disagio.
Cerco riparo all’interno di un negozio che espone jeans in vetrina. Vengo letteralmente assalito dalla commessa. Si capisce dall’accento che viene dall’est. Mi sembra poco coerente con le persone che frequentano questo posto. Inoltre, tutto nell’interazione con la commessa mi ricorda i venditori di rose fuori o dentro ai locali. Non è italiana, si avvicina imbracciando un mazzo di pantaloni, mi dice i prezzi. Io temporeggio e allora lei rilancia che, anche se ancora non è periodo, può scontarli come se fossero in saldo. Sono sempre più spaventato e allora accenno a un timido ‘no, grazie’ ma lei si fa più pressante. Nel senso che mi sorride con quel sorriso che significa se non compri i pantaloni mio marito questa notte mi coprirà di botte con una calza riempita con le mance dei clienti del night club di cui è proprietario.
Mi fa pena quindi ne provo diverse paia e finalmente trovo il modello che preferisco: quelli normali. Pago, lei è raggiante e scodinzola esageratamente.
Fuori dal negozio ricomincia l’incubo. Schivo famiglie con i bambini grassi resi ancora più grassi dai giubbetti Moncler, per poco non calpesto il piede a un troglodita con le Hogan, tengo a debita distanza i cinesi arrivati da Venezia in corriera, vengo invitato a sedermi dal cameriere di un bar, mio malgrado sento una ragazzina dire al suo ragazzino che è felice perché hanno trascorso una fantastica giornata all’Outlet, una vecchia mi domanda dov’è Bluemarine. Vado a sbattere contro una bambina molto piccola, quattro o cinque anni, che cade per terra e si mette a piangere. Nessuna traccia dei genitori. La raccolgo e le chiedo dove sono la sua mamma e il suo papà ma lei non smette di frignare.
In quel momento mi rendo conto che per tutto il tempo che ho trascorso dentro l’Outlet, i messaggi in filodiffusione continuavano ad essere trasmessi. Ma giuro che non me ne rendevo conto, mi avevano fottuto l’inconscio. Allora chiedo alla bambina se anche lei sente la radio. Per concentrarsi smette di piangere e mi risponde di sì. In quel momento arriva un passeggino spinto dalla forza motrice di una madre a cui è stata data una mano di biondo platino e che fuma come l’Ilva. Il passeggino è pieno di buste.
“Aurora, ma dove cazzo sei andata!”
La bambina mi guarda implorante, io la restituisco alla legittima proprietaria e mi congedo dalla fan di Ramazzotti.
Guadagno l’uscita.
Davanti al grande abete che svetta all’ingresso dell’Outlet c’è un maschio sulla trentina che posa per farsi immortalare dall’iPhone della sua ragazza, carico di pacchi e pacchetti. Una scena che dice più cose sul declino della nostra civiltà che tutti i grandi saggi di sociologia o status di Scanzi messi assieme.
Sono stato per la prima volta in vita mia in un Outlet ed era pieno di persone talmente tristi, depresse e malvestite che mi sono sentito a mio agio.