Le mie avventure con la diarrea: primo episodio
La diarrea è forse l’ultimo tabù rimasto nella nostra società: snobbata dalla letteratura, dal cinema, dalla musica, dalle arti figurative e dalla fisica quantistica.
Io con la diarrea però ho sempre avuto un rapporto molto intenso, e ritengo corretto dedicare un po’ del mio tempo a decantare le gesta del mio colon.
Per questo ho deciso di aprire una mini rubrica, che durerà due o tre episodi, in cui apro il mio cuore e mi denudo di fronte al mondo, parlando senza vergogna di questa mia intramontabile amica.
(Avverto che di solito aggiungo particolari inventati quando racconto un aneddoto ma questa volta giuro sul mio caricabatterie cinese che farò una cronaca onesta e precisa fino all’ossessività su ciò che mi è accaduto)
Pittore per caso
Qualche anno fa lavoravo per una cooperativa sociale ed uno dei miei compiti era andare a fare delle riprese video a seconda delle richieste, così una sera di luglio stavo registrando una rappresentazione di Re Lear, messa in scena da una compagnia di disabili.
Ora, nobilissima tutta la faccenda, ma capirete anche voi che due ore e mezza di Shakespeare senza capire una parola possono essere un po’ pesanti da digerire.
La cosa si svolgeva all’aperto e perseguitato dalla noia decido di cercare dell’alcol per obnubilare la mente. Il problema è che non c’era l’ombra di un bar, di un supermercato o di qualsiasi altra cosa contente della birra. Chiedo un po’ in giro e mi dicono che a un isolato di distanza c’è un negozietto indiano che forse vende alcolici, insomma per farla breve lascio la telecamera in automatico e vado a comprarmi una cassa di Kinkbräu da questa versione di Apu in carne ed ossa.
Torno alla mia postazione mentre il ragazzo che interpretava Edgar al posto di ferire Edmund si cimenta in una interpretazione de la Solitudine della Pausini, migliorandola.
Comincio a svuotare le lattine, gelide, ripeto che era Luglio, caldo ma venticello, la cosa si svolgeva in esterno.
Insomma.
Arriva.
Arriva con la forza di mille tempeste e mille eserciti.
Comincio a sudare, le gambe si irrigidiscono, le gote si arrossiscono e vengo colto da tutti quei sintomi che mi avvertono che non c’è tempo per pensare, che non c’è tempo per niente altro, che è arrivata colei davanti la quale tutti gli uomini sono uguali: la diarrea.
Panico, non c’è posto dove liberarsi, non c’è cespuglio, non c’è pertugio, non c’è roccia, non c’è una barricata della seconda guerra mondiale, non c’è nulla di nulla. Comincio a correre per il quartiere, disperato, alla ricerca di qualche posto in cui alleviare la mia pena.
Quando mi sono quasi convinto che l’unica cosa da fare è lanciarmi in un cassonetto, intravedo un’oasi, intravedo la salvezza: un centro sportivo.
Corro col cuore in gola, entro in una palestra, ci sono dei ragazzi che giocano a Basket, non una partita ufficiale, la classica partitina infrasettimanale tra amici. Non ho tempo di fermarmi a spiegare, a chiedere, a giustificare. Il tempo è proprio l’ultima cosa che ho a disposizione. Mi infilo nel loro spogliatoio sperando non si accorgano di me, entro in bagno piangendo dalla gioia.
Un bagno per disabili tra l’altro.
Finalmente mi libero, il miglior orgasmo della mia vita.
Il problema però è che, usando una figura retorica attinente, preso dalla foga non faccio canestro ma becco il ferro e parte del tabellone, così quando mi giro mi accorgo che ho ridipinto il water, ormai per la maggior parte decorato da barocche sfumature marroni.
Ovviamente, ovviamente, OVVIAMENTE, non c’è carta igienica.
Che cazzo faccio?
Essendo un bagno per disabili era molto spazioso, con la conseguenza che il lavandino era almeno a tre metri dal water. Mi ci arrampico sopra e mi pulisco trasformandolo in un bidè, risolvendo il primo problema.
Adesso mi trovo di fronte a due possibilità: scappare sperando di non essere intercettato da nessuno o cercare di trovare una soluzione al casino inverecondo che ho combinato.
Opto per la seconda.
Dopo buoni cinque minuti di improbabili macchinazioni capisco che non c’è altra soluzione se non le mani a coppetta.
Perciò metto le mani a coppetta, le riempio d’acqua dal rubinetto del lavandino e getto piccole secchiate d’acqua contro il water, sperando di pulirlo dai miei prodotti.
Il metodo funziona egregiamente perché dopo una trentina di lanci la tazza è tornata bianca come Dio e come la celebrità.
A quel punto cominciano a bussare violentemente alla porta.
Sono i tizi che giocavano a basket, che insospettiti dai rumori sono convinti che sia uno di quei ladri che si infila negli spogliatoi a fregare portafogli e cellulari. Cominciano a minacciarmi e a intimarmi di uscire. Dietro la porta cerco timidamente di confessargli che avevo solo bisogno di andare in bagno ma non mi credono e vogliono pestarmi.
Mi decido ad uscire, per fortuna avevo avuto il tempo di pulire il water. Apro la porta e vengo travolto da quattro tizi desiderosi di vedere le mie gengive sanguinare.
Cerco di spiegarmi ma non mi ascoltano, è finita.
A un certo punto il miracolo.
I tizi smettono di sbraitare e minacciarmi e si pietrificano, muti, fissando qualcosa alle mie spalle, senza parole. Mi giro e capisco il perché. La mia tecnica di gettare l’acqua con le mani a coppetta aveva funzionato egregiamente per il water ma il tutto era poi rimbalzato sulle pareti del bagno.
Così c’era un muro che era sostanzialmente ricoperto di schizzi di merda, ricordando molto la tecnica del dripping di Jackson Pollock. E non parlo di due o tre schizzi, parlo di una composizione enorme, tipo i dipinti a fresco delle chiese.
Approfitto così del diversivo per scappare via veloce come il vento, lasciando i tizi ammirare il mio capolavoro.
Quando torno allo spettacolo deve ancora finire.
Apro un’altra lattina.
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