Fenomenologia di Holly e Benji
Il “mondo del calcio” è, a mio avviso, uno dei mondi esplorati con minore perizia e attenzione dalla letteratura italiana. Certo, negli ultimi tempi sembra che qualcosa si stia muovendo (soprattutto nell’ambito delle pubblicazioni online), tuttavia il calcio rimane uno dei topoi meno affrontati dagli scrittori del Bel Paese.
E, sinceramente, non ne capisco il perché. Tolto il parere personale che ognuno di noi può nutrire nei confronti della bellezza di un dato sport rispetto a un altro, il calcio è una disciplina che si presta perfettamente a descrivere una sorta di epica moderna. Un insieme di cadute, rinascite, drammi ed emozioni, perfetto per essere traslato nelle grandi narrazioni contemporanee. Ne hanno dato ottimo esempio, tra gli altri, scrittori del calibro di Enrique Vila-Matas, Roberto Bolaño, Javier Marías e Manuel Vázquez Montalbán (tutti scrittori di lingua spagnola, a voi decidere se si tratti o meno di casualità), mentre in Italia le migliori pagine sul calcio (esclusi gli scritti di carattere giornalistico di “mostri sacri” come Gianni Brera) sono state scritte da due dei più grandi poeti novecenteschi: Pier Paolo Pasolini e Umberto Saba.
Se uno degli aspetti che ha fatto sì che l’epica calcistica venisse traslata con difficoltà in narrativa è da riscontrarsi in quello che Vila-Matas chiama il suo essere «una realtà autocentrata, un fenomeno auto-evidente» che ne rende quasi impossibile il racconto, un altro aspetto è da ricercarsi nella mole di spazzatura giornalistica che da diversi decenni accompagna lo “sport più bello del mondo”. Soprattutto, ma non solo, in Italia. Lungi dal voler entrare in diatribe da Bar Sport sulla degenerazione del giornalismo sportivo, va sottolineato come un ambiente giornalistico in cui “vince” chi urla di più, chi azzecca il titolo a effetto, chi la spara più grossa e chi è costantemente a caccia di gossip para-sportivi, non può di certo portare a una crescita della cultura calcistica media della popolazione. Se davvero, come credo, siamo quello che leggiamo, vedendo la classifica dei quotidiani sportivi e delle autobiografie calcistiche più lette, non mi stupisco di nulla. Piuttosto mi preparo al peggio. Cosa a cui, d’altronde, il nostro Bel Paese ci ha abituato da almeno due decenni.
Tuttavia non tutto il rosa viene per nuocere, anche se potrebbe sembrare l’esatto contrario. Perché, a decenni su decenni di imbarbarimento calcistico mediatico (nell’attesa della famosa “epica” calcistica di cui sopra), possiamo rispondere con dei signori anticorpi. Anzi, con i migliori anticorpi calcistici che madre natura (con gli occhi a mandorla) ci abbia mai donato: i cartoni animati (anime in giapponese) di “Holly e Benji”! Poche storie, amici cari, alzi la mano chi non è cresciuto a suon di pomeriggi passati a guardare le gesta dei due fuoriclasse (anche se Benji era un po’ come il Recoba dei tempi d’oro: più all’estero o in infermeria che sui teleschermi delle nostre vecchie Mivar o Sèleco), capaci di correre su infinite praterie d’erba per chilometri e chilometri e chilometri e chilometri. Certo, immagino che molte lettrici preferissero nettamente le vicende pallavolistiche di “Mila e Shiro” (un altro desaparecido del piccolo schermo) alle gesta dei calciatori della New Team o della nazionale giovanile giapponese, tuttavia la profondità di analisi del mondo del calcio prodotta dagli autori dei cartoni animati di “Holly e Benji” è qualcosa di indescrivibile. Una riflessione sociologica sull’evoluzione del calcio che, di lì a trent’anni (il primo manga di “Holly e Benji”, chiamato in originale “Captain Tsubasa”, è datato 1981), avrebbe stupito chiunque per profondità e lungimiranza. E proprio sull’aspetto della lungimiranza vorrei soffermarmi, perché un paio di decenni fa i cartoni animati sul calcio (nonostante ora siano pressoché finiti nel dimenticatoio…) la facevano da padrone: e potrei ricordarvene alcuni (“Palla al centro per Rudy”, “A tutto goal”, “Forza campioni”) che magari alla maggior parte di voi non diranno nulla, ma che, dopo una rapida ricerca delle sigle su Youtube, potrebbero aprire la più proustiana della madeleine. Eppure nessuno di questi cartoni arrivò mai a lambire non tanto la durata complessiva delle varie stagioni di “Holly e Benji”, piuttosto la sua serietà, la sua capacità di analisi e la sua abilità nel prevedere le future evoluzioni del mondo del calcio. Ecco di seguito, quindi, le cose che ho imparato sul calcio (e sulla vita) dalla visione dei cartoni animati di “Holly e Benji”. Perché, spesso, un cartone animato era molto più educativo di quattro manrovesci. A oggi lo è certamente di più della lettura di certi giornali.
[nerd alert: i nomi sono declinati secondo la versione dell’anime italiano e non del manga]
I commentatori (ovvero dell’inutilità radio-televisiva del commento tecnico):
il commento delle partite dei nostri beniamini era sempre appannaggio della medesima e unica voce: un commentatore di cui non sono declinate generalità, nome e che non appare quasi mai in video, se non sotto forma di un microfono nella torretta dello stadio (a sua volta sempre la stessa, in qualsiasi campo si giocasse). Negli anni ’80, infatti, gli autori di “Holly e Benji” avevano previsto quale sarebbe stata una delle maggiori piaghe del calcio moderno: il commento “tecnico”. Aldo Serena, Beppe Bergomi, Salvatore Bagni, e decine e decine di altri ex-calciatori hanno dimostrato scientificamente di come il supposto commentatore “tecnico” sia assolutamente inutile, quando non deleterio, nell’economia di una telecronaca calcistica. Bei tempi quelli di Bruno Pizzul e del suo unico socio in cabina di commento: il Tocai Friulano. Ora siamo costretti a subirci spiegazioni improponibili, ipotesi tecnico-tattiche inverificate e inverificabili, gufate al limite della decenza, “soluzioni” a portata di mano che portano chiunque a chiedersi come mai quelle menti calcistiche così illustri siedano negli studi televisivi piuttosto che sulla panchina di qualche blasonato club. Il commento tecnico è il male del calcio televisivo, e ha la sua propaggine nell’addetto alle interviste a bordo campo, vero e proprio mostro annienta pathos capace di strappare i protagonisti delle partite dall’euforia della vittoria, per proiettarli nella banalità delle interviste di fine gara. Un po’ come un test per le malattie veneree dopo una bella scopata. Un incubo fattosi Carlo Paris.
L’importanza delle giovanili (e dello stadio di proprietà):
la presenza di un unico commentatore per tutte le partite della serie ci rimanda a un’altra riflessione: perché delle partite tra ragazzini delle medie/liceo hanno un professionista che descrive le loro prodezze calcistiche? Perché, come si evince dalle inquadrature, lo stadio (oltre a essere quasi sempre lo stesso, come accennato in precedenza) è sempre stracolmo di gente? Anche in questo caso gli autori di “Holly e Benji” sono stati lungimiranti: per un movimento calcistico serio e forte è necessario investire sul settore giovanile e sullo stadio di proprietà. A differenza delle squadre italiane, le quali puntano molto spesso su calciatori stranieri a fine carriera piuttosto che su giovani cresciuti nelle proprie giovanili, tutte le squadre giapponesi presenti nell’anime hanno un settore giovanile fortissimo, capace di accompagnare i giovani calciatori dalle leghe minori fino alla finale della coppa del mondo. Medesimo discorso per gli stadi, quasi tutti presi in affitto a suon di soldoni da parte dei club italiani e quasi mai (salvo rare e virtuose eccezioni) di proprietà. In Giappone, per non correre il rischio di sbagliare, hanno costruito un solo stadio, dove giocano tutte le squadre giovanili: una sorta di socialismo reale modernizzato capace di abbattere i costi di gestione e di far rendere al massimo la struttura. Chapeau!
I procuratori (ovvero della tratta dei giovani talenti):
fin dalle prime puntate dell’anime, numerosi “figuri” mettono gli occhi addosso a Holly e ai suoi giovani e calcisticamente promettenti amici (uno su tutti, il mitico Mark Lenders, di cui parleremo diffusamente in seguito). Nell’anime appaiono come personaggi distinti dal fisico curato, gli occhiali da sole sempre calati in viso, gli abiti impeccabili, la dialettica sobria ed elegante: insomma, l’esatto contrario di Mino Raiola. Tuttavia questi personaggi svolgono lo stesso ruolo del buon Mino “el pizzero” Raiola, ovvero quello del procuratore. La figura del procuratore è un’altra delle varie piaghe del calcio: là dove una volta bastava una stretta di mano per siglare un accordo tra calciatori e presidenti di società, ora vi è una selva di cavilli, postille, percentuali, bonus a salire o a scendere, incentivi e via discorrendo. Insomma, parimenti alla deriva sempre più “professionistica” del calcio (di per sé non necessariamente negativa, vedasi altre leghe sportive professionistiche regolate da leggi più serie), si è assistito a una deriva burocratico-economica che si è rivelata terreno fertile per molti personaggi privi di scrupoli, ma sicuri delle loro ragioni (monetarie). In più, molti procuratori non svolgono soltanto il ruolo di mediatori tra i loro assistiti e le società calcistiche, trasformandosi invece in veri e propri mercanti di “schiavi”. Assumendo, cioè, procure di giovani promesse calcistiche salvo poi abbandonarle quando la strada del successo non si rivelerà così facile com’era noi reciproci piani. I procuratori che cercano (inutilmente) di affrettare i tempi della svolta estera per la carriera di Holly o di prendere nelle loro maglie Mark Lenders sfruttando la sua mancanza cronica di denaro, sono gli stessi che hanno bruciato migliaia di carriere di giovani talenti del calcio moderno. Disciplina, programmazione e una certa botta di culo devono quindi essere all’ordine del giorno. L’avere un amico come Roberto Sedinho, poi, sarebbe la ciliegina sulla torta.
L’importanza dell’educazione calcistica (ovvero del “caso Roberto Sedinho”):
nel calcio, come nella vita, la formazione in giovane età è qualcosa di importantissimo. Avere una figura forte accanto, ovvero un mentore capace di farci da maestro è certamente un aiuto considerevole per affrontare al meglio le sfide (sportive e umane) che ci capiteranno dinnanzi. Se questo mentore, poi, è con ogni probabilità l’amante di nostra madre e ha la passione per la bottiglia, le possibilità aumentano in maniera esponenziale! È questo il caso di Holly e Roberto Sedinho, ex-calciatore brasiliano alcolizzato (una specie di Adriano, ma con la barba incolta e con più rettitudine morale), la cui presenza in Giappone (quasi 20000 chilometri di distanza), il costante ronzare attorno alla madre di Holly (sposata con un capitano di vascello) e il tentativo di suicidio nella barca del cuckold di cui sopra, fanno ipotizzare una liason ben diversa rispetto a quella tra allenatore e pupillo. In ogni caso, Roberto è la figura cui fa costante riferimento Holly: vero e proprio mentore del giovane calciatore, posticiperà il suo arrivo in Brasile (alla faccia dei procuratori-avvoltoi) dandogli il tempo di formarsi maggiormente e di maturare calcisticamente. La storia darà ragione al buon Sedinho. La mamma di Holly, semplicemente, gliela darà ogni volta che il marito prenderà la via del mare. Roberto Sedinho, ovvero il Vasco da Gama delle milf.
Il calcio come forma di riscatto sociale (ovvero dello scontro Balotelli vs Mark Lenders):
come ogni buon anime che si rispetti, anche “Holly e Benji” era pieno di messaggi sociali volti a educare le masse di bambini a cui l’anime stesso si rivolgeva. Abbiamo detto dell’educazione calcistica e dell’importanza di attendere il momento adatto per prendere scelte di vita radicali, mentre del valore del gioco di squadra diremo poi. Un altro messaggio che “Holly e Benji” voleva comunicare ai ragazzini di tutto il mondo, però, era quello di non arrendersi mai perché, anche a discapito di vere e proprie tragedie familiari, il calcio avrebbe potuto essere un’ottima valvola di sfogo (in senso positivo) e di riscatto sociale. Se la faccia luminosa della luna erano i “protagonisti” Holly Hutton (un ragazzo figlio di una famiglia piccolo borghese, che nel calcio vedeva una passione sfrenata ai limiti della non sanità mentale; memorabile il suo motto da disagiato doc: “il pallone è il mio migliore amico”) e Benji Price (figlio viziatissimo di una famiglia ricca, capace di pagargli un preparatore personale), la pinkfloydiana dark side of the moon era rappresentata dai vari Tom Becker (genitori separati, padre pittore squattrinato sempre in giro per il mondo alla ricerca di commissioni), Julian Ross (soprannominato “campione di vetro” per una malformazione congenita al cuore) e, soprattutto, Mark Lenders. Mark Lenders appare subito come lo sbruffone della serie. Più piazzato degli altri giocatori, maniche della divisa arrotolate fino alle spalle (ci mancava solo il pacchetto di Diana Rosse all’interno), sguardo da scugnizzo sempre pronto a lamarti per qualche yen in più. In realtà Mark è un ragazzo dal cuore d’oro: orfano di padre, lavora ogni giorno per guadagnare il denaro sufficiente a mantenere la madre e i fratelli più piccoli. Lo fa, però, in silenzio, sgobbando ogni giorno prima degli allenamenti, così da non intaccare la sua preparazione tecnico-atletica. E, in tutto questo dramma neorealista, Lenders era un centravanti con due cosi così: Balotelli o Rooney, a confronto, sono dei ragazzini viziati.
L’importanza di avere per allenatore un sergente di ferro:
parlando di Mark Lenders non si può non ricordare il suo mitico allenatore Jeff Turner: un uomo al cui confronto i “motivatori” di nuova generazione sono delle mezze calzette umidicce. In confronto a Jeff Turner le “asciugate di capelli” di Ferguson sono poca cosa, i gradoni di Zeman sono nulla e le sottigliezze psicologiche di Mourinho meno che meno. Per intenderci, Jeff Turner può essere paragonato soltanto al vecchio allenatore della Dinamo Kiev, il mitologico (ma reale) colonnello Lobanovskyi: uno che avrebbe fatto tremare anche i vertici del KGB. A discapito della passione per la vodka di Lobanovskyi, Turner preferiva il sakè, che beveva in quantità industriali mentre allenava Mark Lenders a potenziare il suo “tiro della tigre”. Se Lenders era per tutti la tigre orgogliosa di cui sopra, col minuto Jeff Turner si trasformava in gattino ammaestrato. Un gattino, però, pronto a rendere al meglio. Allenamenti sulla spiaggia, esercitazioni notturne, privazioni di ogni genere. Non c’era nulla di ciò che Turner gli ordinava che Lenders non avrebbe portato a compimento. E, a conti fatti, i successi di Mark hanno dato ragione a Turner. Non delle sole “coccole” alla Sedinho vivono gli attaccanti, a volte un sergente Hartman ubriaco di sakè può rivelarsi il miglior educatore possibile.
(Video memorabile: oltre al – Ci vediamo al campo appena ho finito di bere!-, da Oscar la scena in cui Mark “spenna” un’aquila con una pallonata sotto lo sguardo compiaciuto di Turner…)
Il portiere moderno (ovvero di come Neuer debba pagare una cena a Ed Warner):
altra “vittima” degli insegnamenti di Turner è Ed Warner, portiere della Toho e della nazionale giapponese. Se gli ultimi mondiali hanno incoronato Neuer, portiere della Germania, come archetipo del portiere moderno (uscite spericolate coi piedi, atletismo, sfacciataggine, reattività), negli anni ‘80 i creatori di “Holly e Benji” avevano già previsto questa “deriva” del ruolo verso una forte preparazione tecnica. Da unirsi, però, a un atletismo fuori dall’ordinario spesso contaminato da esperienze in discipline sportive diverse. Ed Warner, infatti, era un karateka, e proprio tale arte marziale gli ha permesso di sviluppare una reattività e uno scatto fuori dall’ordinario. Intendiamoci, se Benji Price è la tecnica fatta portiere (mi viene in mente il Casillas o il Buffon della situazione), ovvero piazzamento, capacità di leggere la difesa e carisma, Ed Warner è il prototipo dei vari Neuer o Courtois: forte nelle palle alte, sfacciato, determinato, implacabile nell’area piccola. Molto più spettacolare da vedere dei portieri “accademici” (ma non per questo meno tecnico), anche Warner deve molto del suo bagaglio tecnico al vecchio Jeff Turner. Il futuro del ruolo era già segnato agli inizi degli anni ’80, eppure nessun giornale ce lo aveva mai detto!
La morte del Tiki Taka (ovvero di come Guardiola non guardasse “Holly e Benji”):
premetto che l’argomento potrebbe essere un po’ ostico e noioso per i non amanti dei tecnicismi, quindi invito questi ultimi ad andare al prossimo (e ultimo) paragrafo, in cui si parla della parte “sessuale” dell’anime. Il Tiki Takaè il modulo calcistico attuato principalmente dal Barcellona di Guardiola, vincitore di ogni trofeo nell’ultimo decennio. Si tratta, semplificando, di un modulo volto al possesso palla continuo, al palleggio asfissiante, alle verticalizzazioni repentine e, in conclusione, a tiro da posizione molto ravvicinata. Spesso favorito dalla presenza di un “falso nove”, ovvero da un attaccante più tecnico che fisico (vedi i vari David Villa, Alexis Sanchez o Pedrito), privo delle caratteristiche tipiche del centravanti “pennellone” vecchio stampo. Bene, questo modulo ha imperversato per quasi un decennio (tra Barcellona e nazionale spagnola), salvo poi collassare su se stesso a causa di una certa leziosità e del normale sfiorire fisico e tecnico dei suoi esecutori, nonché delle misure presegli nel frattempo dagli avversari. La recente abiura del Tiki Taka da parte di Guardiola, però, è stata tardiva se rapportata all’evoluzione del modulo della nazionale giovanile giapponese presente nell’anime “Holly e Benji”. Dotata di calciatori estremamente tecnici e votati all’attacco, la nazionale giapponese giocava con un modulo volto sì a riconquistare subito palla (restano mitologici i tackle 4 vs 1!), però non a un possesso estremo, piuttosto a un gioco finalizzato a puntare sulle duplici soluzioni rappresentate dai trequartisti (Tom Becker e Holly Hutton su tutti) e da un centravanti massiccio “alla Ibrahimovic” come Mark Lenders. Il tutto senza dimenticare le incursioni sulla fascia dei gemelli Derrick,
le sortite dei centrocampisti, l’apporto di due centrali ben assortiti (uno “fisico” come Yuma e uno “tecnico” come Callaghan: il primo calciatore socialista dei cartoni animati) e un regista simil-Pirlo (il buon Julian Ross). La nazionale di calcio giapponese, dominatrice dei mondiali giovanili, ricordava una sorta di mix tra il grande Ajax di Cruijff, l’ultimo Bayern di Heynckes e il Real di Ancelotti (senza, però, quella fighetta di CR7), squadre profondamente negatrici dell’esasperato Tiki Taka guardioliano. Se invece di sdilinquirsi di fronte al possesso palla al 75% i rosei giornalisti italici si fossero guardati un paio di puntate del nostro anime preferito, avrebbero capito che il Tiki Taka (così come il campo di “Holly e Benji”) non sarebbe mai potuto durare in eterno.
Le Wags (ovvero di come, adesso, nel mondo del calcio si scopi di più e meglio):
se l’anime di “Holly e Benji” avesse previsto tutto, ovvero se non avesse cannato nemmeno un piccolo particolare, dubiterei io stesso della veridicità di quest’articolo. Fortunatamente, però, le Wags sono qui a rappresentare la classica eccezione che conferma la regola. “Wags” è un acronimo di origine inglese che significa letteralmente Women and Girlfriend of high-profile Sportsmen, ovvero “donne e compagne di sportivi di alto livello”. In sostanza si tratta delle bellezze che, sposate o meno, si accompagnano ai campioni moderni, donando loro beltà e sesso orale in cambio di carte di credito semi-illimitate per foraggiare capricciosi e inutili acquisti. Si tratta di uno scambio quasi alla pari: le Wags, con la loro bellezza, donano fama al ricco campione; il ricco campione, con il suo conto in banca, dona un tenore di vita principesco alle suddette. Fino a qui tutto bene, eppure in “Holly e Benji” non c’è traccia di una sola Wags. Certo, nell’anime ci sono un paio di fanciulle che girano attorno ai calciatori. Penso alla fidanzata di Holly, la “cara” Patty Gatsby: una groupie esteticamente non certo gradevole che ha conquistato il campione nipponico grazie allo stalkeraggio piuttosto che all’amore; oppure alla fidanzata di Julian Ross, una fanciulla carina, ma sciapa quanto un branzino lesso e con la propensione alla crocerossina . Insomma, nell’anime non si scopa. O meglio, i creatori di “Holly e Benji” non sono riusciti a prevedere la deriva da gossip nazional-popolare (e non solo) che la presenza di fanciulle a stretto contatto con i giovani calciatori avrebbe creato. Nell’anime le fanciulle sono più amiche che amanti, più tifose che volubili compagne, e di certo non per una sorta di censura “preventiva” data l’età adolescenziale dei protagonisti. In compenso, nel clima monastico-calcistico dominante, ci pensa il buon Roberto Sedinho ad animare le notti delle milf che accompagnano (ignare?) i figli allo stadio: un bomber dentro (poco) e fuori (molto) dal campo. Caro Roberto, prenditele pure tutte, ma lascia stare la mamma di Mark Lenders: lamata assicurata!
(- Ma con tutti i soldi che hai, proprio con quel cesso della Patty dovevi metterti?
– E tu devi proprio andare in giro con un berretto con su scritto “viva Genzo”?)
Questa piccola analisi, cari amici, è quindi giunta al termine. Parlando di calcio e delle conquiste amorose del “bomber” Sedinho, non poteva non tornarmi alla mente quest’arcinota frase del già menzionato Manuel Vázquez Montalbán: «quando [il pallone] urtò la rete avversaria, la sollevò come una gonna, come i migliori venti sollevano le gonne alle ragazze in fiore». Colta citazione proustiana a parte, è bello vedere come la semplicità del gesto richiami la bellezza del risultato. E viceversa. Di come le spiegazioni più complesse o assurde o logorroiche si risolvano, poi, in una palla che rotola, urta la rete e la gonfia. Creando eccitazione, emozione e rinascita. O, al contrario, dramma e caduta. Perché, dopotutto, le cose più semplici sono con ogni probabilità le più belle e le più pure. Anche se ci siamo ormai dimenticati la nostra capacità di sintetizzare. Di ridurre ai minimi termini. Di godere di un piccolo, grande, rivoluzionario gesto. Quello del ricordo. La nostra madeleine da addentare.
Madeleine che ci appare sotto forma di un cartone animato, e che ci ricorda come il mondo (del calcio) necessiti di spogliazione per essere compreso. Non di pesantezza. Non di accumulazione.
Piuttosto di una gonna che si adagia al bordo del letto come la rete dopo il gol.
Come il sorriso dolce delle fanciulle in fiore.
E poi la palla di nuovo al centro. Le squadre schierate.
Le fanciulle in fiore a tifare e struggersi.
Esos fueron los días.
Días de fútbol.