Estate
«Va bene, so che siete stanchi di sentirla, ma che ne dite di un’ultima volta?».
Perché sì, perché poi arriva l’estate. O meglio, l’estate è già arrivata. Solo che tra Caronte, ipotetiche crisi di governo, vacanze in Kazakistan, Ruby-gate e schizzi (nel senso più gergale della parola) tommasiani (ovvero di/su/in Sara Tommasi) ti sembra che non si possa ancora staccare la spina. Perché le cazzate che accadono sono così tante e continuative che è sempre meglio stare sul pezzo (idem come prima) e non lasciare che gli spazi vuoti vengano riempiti da altri. Perché è sempre meglio padroneggiare gli eventi descrivendoli, piuttosto che seguirli pedissequamente. E se un’idea ti balza in testa bè, forse è meglio sviscerarla (ed eviscerarla) prima che passi il Luttazzi di turno e, con la scusa della satira (Daniele caro, ricorda Aristofane e L’apologia di Socrate…), te la pigli facendola sua. Che se si trattasse di una ragazza sarebbe becero tradimento ma, se si tratta di un’idea, bè, allora è “citazione” tutta la vita!
Detto questo, che ben poco ha a che vedere con ciò di cui vi vorrei parlare, va registrato che sì, che l’arrivo dell’estate coincide con lo sbocciare del romanticismo più sensuale. Ovvero con la libera circolazione degli ormoni maschili e femminili che, tra feste in spiaggia, vacanze improvvisate, sudori animaleschi e via discorrendo, trovano la loro collocazione in quello che una volta era chiamato “rimorchio estivo” ma che, con il passare del tempo (e l’avanzare dell’età) diventa “romanticismo” allo stato puro. Perché sì, perché non c’è nulla di più sensuale del romanticismo (in senso non gergale del termine) e della sua libera espressione. Sia essa fisica, gestuale, visuale, vocale e chi più ne ha più ne metta. Personalmente, l’estate mi ricorda due cose: l’ipotetica “classifica” dei messaggi più romantici mai ricevuti (non chiedetemi perché, ma io ho sempre ricevuto messaggi romantici d’estate, che gli inverni li passo rintanato in casa come in letargo, con il frigo pieno di birre, il vinile di Chet Baker sulla piastra e il riscaldamento a zero, che non si sa mai passi un pinguino a fare couch-surfing e voglia sentirsi a suo agio…) e la prima estate da universitario. Quella passata a confrontarmi con il caldo sub-sahariano-padovano, disteso su un divano arancione a sterminare zanzare tigre, bere Birre Ignoranti (ai tempi avevamo il discount a meno di venti metri da casa, da cui il motto «la Birra Ignorante è grande e l’Hollandia è il suo profeta!») e leggere Bukowski ascoltando allo sfinimento i CCCP sul vecchio cd masterizzato del Fede. Lo so, non sono ricordi poi così inconsueti. Soltanto, l’avvento del WWH (il World War Hipster) ha fatto sì che tutte queste cose da “bohemienne de noantri” finissero con l’essere completamente sdoganate. Perché si può anche ascoltare Chet Baker allo sfinimento, ma se non si ha tutta la discografia completa dei Sigur Ros bè, pochi cazzi, «sei fuori!» (detto alla Briatore, con dito indice suinescamente alzato). Lo stesso vale per i libri di Bukowski, che vi sfido io a paragonarlo ai vari Thomas Pynchon o David Foster Wallace! Che avrete anche ragione, hipster cari, ma se DFW o TP non li leggete se non per procura, tanto vale che mi citiate La Settimana enigmistica. Che vi darebbe anche quel tocco di vintage in più che non guasta mai!
L’estate, quindi, nel mio immaginario è il compendio della sensualità unita al romanticismo e, dato che entrambe debbono pur sublimarsi in qualcosa, vorrei usare la bibliografia di Bukowski per dare a tutti i cari amici lettori, un insieme di frasi bukowskiane degne di nota. Frasi romantiche. Frasi dolci. Frasi da snocciolare nei momenti d’intimità più spinta, sia essa con le vostre compagne/i, amiche/i, amanti; insomma, con chi diavolo abbiate deciso di avere al vostro fianco. Perché l’estate libera tutti. E il romanticismo bukowskiano, liberato dal nerdismo hipsteresco, è quanto di più romantico possa esistere, poche storie! Perché, per poter far felici i propri partner, la miscela di incoscienza alcolica, irriverenza istrionesca e deferenza sentimentale è l’essenza perfetta. Solo, va centellinata come un ricordo. Perché soltanto i ricordi portano in sé l’essenza di ciò che è stato e di ciò che sarà. Perché si vivono con il corpo del passato, ma si sublimano con il pensiero volto al futuro, e vada a quel paese l’animale libero di Rilke nelle sue Elegie Duinesi! Dato che l’essere privo di ricordi sarà sì salutare, ma mica sentimentale! E io li voglio tutti i miei ricordi, così da farci un bel balletto stile Otto e mezzo felliniano. Tutti accanto a me! Tutti abbracciati! Che non li dimenticherò mai i tre messaggi più romantici della mia vita. E voglio snocciolarveli così, come si snocciolerebbe un pensiero digerito e sedimentato. Perché la scrittura è anche una forma di combattimento e il cuore va sempre messo a nudo (non è vero, vecchio Charlie?); che a star vestito magari non si prende il raffreddore, ma di certo si rinsecchisce. Così mi trovo nell’assurda incertezza tra il «mangia la carne, ti prego!» (ogni interpretazione è a discrezione del lettore) e il «ho ancora il tuo sperma incrostato sul ginocchio!» (ogni interpretazione NON è a discrezione del lettore), con l’aggiunta di quello che forse è davvero è il messaggio più romantico mai ricevuto. Ovvero l’immagine di una macchia di liquido mestruale a forma di cuore impressa sul materasso. Solo, essendo un messaggio visuale, mi suona più come “fuori categoria”. Che non vorrei mai mi capitasse il notaio de L’Eredità a rompermi le palle perché l’ho fatta fuori dal vaso. E questo è quanto. Perché, ora che sapete la prima metà della mia concezione “pavloviana” dell’estate, ben possiamo passare alla seconda. Senza nemmeno troppi fronzoli.
Un paio di mesi fa mi trovavo a Padova per un concerto. Finito il concerto mi metto alla ricerca, assieme a un amico, di un bar aperto nel cuore della notte così da comprare le ultime, arcinote, birre della buona notte. Inutile dire che il solo bar aperto era un bar di cinesi, i cui prezzi erano assolutamente abbordabili per degli squattrinati cronici come me e il mio amico. Capitiamo, quindi, in questo bar e iniziamo a scolare a garganella delle Castello da 66cl, seduti al bancone a parlare dei massimi sistemi della vita (che, chissà perché, saltano sempre fuori dopo l’una di notte). La nostra attenzione, però, cade su un uomo distintissimo di una settantina d’anni che se ne sta seduto al tavolino bevendo spritz Campari, mangiando patatine e leggendo la Gazza. L’immagine di questo signore ci si fissa nella mente, e ne siamo attratti come da un mistero insondabile. Così lo raggiungiamo e attacchiamo bottone. Va detto subito che io nutro un’endemica simpatia per chi beve spritz Campari, così che ci vuole davvero poco perché la persona in questione mi risulti simpatica. Tuttavia, quello sconosciuto aveva qualcosa di più. E me ne accorgo in pochi minuti quando, dopo un paio di frasi buttate là, mi rendo conto che è un vecchio amico (dio santo, quanto piccolo è questo nostro malefico mondo non-WWH!) del mio primo relatore universitario. Un professore di vecchia matrice, genio maledetto e sregolato, che univa la conoscenza maniacale di Petrarca e Boccaccio alla passione giovanile per le prostitute vicentine (tant’è che quando ci disse che, a diciannove anni, aveva scritto un sonetto su una prostituta che se ne stava seduta su una panchina sotto la pioggia, bè, poco mancò che in aula scattasse la “ola” con lacrimuccia annessa, manco stessimo rivedendo un video con tutti i dribbling di Mané Garrincha…). Iniziamo, così, a parlare del nostro comune amico. Condividendo ricordi, emozioni e (ovviamente) spritz Campari. Così che dopo l’ennesimo bicchiere di beverone rosso che mi passa sotto mano quasi cado in trance, e mi sento capace di ogni gesto. In un romanticismo melanconico e oppiaceo degno delle vecchie incisioni di Chet Baker con Bill Evans. E, come loro, mi sento Alone Together, con il mio nuovo amico che mi guarda sbrilluccicando Campari dagli occhi. Ricordandomi che sì, che il nostro amico in comune ben sarebbe lieto di ricevere una visita di un suo ex alunno. Che mica ne riceve, sai? E le cose sono sempre così: finché sei sul pezzo sei un mito, poi ognuno deve farsi la propria vita e il tempo divora le azioni e affievolisce i ricordi. E allora le cose vanno come devono andare: ovvero male e con indifferenza. E tant’è! Io lo ascolto annuendo. Giurando e spergiurando, tra un sorso di spritz Campari e una manciata di arachidi, che sì, che cristo santo ci andrò quanto prima! Perché è una vita che ci penso! E quel ricordo mi batte in testa come un grillo parlante, poche storie. Questa è una cosa che s’ha da fare, dico al mio nuovo amico spritzcamparesco, e mi congedo così, sbronzo e nostalgico, che avrei voluto solo un’altra birra per non pensare a nulla. E poi trovarmi magicamente faccia a faccia con il mio vecchio relatore, così da ringraziarlo per tutto quanto fatto per me ma, soprattutto, per la poesia sulla prostituta vicentina.
Ricordo che l’ultimo giorno di colloqui eravamo finiti in un bar per festeggiare la fine della scrittura della tesi. Scritta, riveduta, emendata e approvata come una manovra finanziaria (ma senza l’inconveniente della presenza di Brunetta): insomma, pronta per essere discussa. Estate anche lì. Estate di quasi un decennio fa. Io e il mio ex relatore entriamo nel bar di facoltà e ci beviamo un paio di bianchi. Parliamo poco. Io molto meno di lui. A volte sono i silenzi a rendere la cifra del rispetto. E lo so che vi sembrerà strano, amici cari, che una tale logorrea verbale possa risolversi in silenzio catartico, ma tant’è, e in quel pomeriggio maledettamente afoso non ho detto quasi una parola, e mi sono limitato a trangugiare il mio bianco in un silenzio rispettoso, ascoltando le poche frasi che uscivano dalla bocca del mio vecchio relatore. Ti ricordi, mi disse, che volevi a tutti i costi portare una tesi su Bukowski? Ma come potevi farla? Ti laurei in letteratura italiana! Come puoi discutere una tesi su Bukowski. Lo diceva ridendo, con quella faccia magra e piena di rughe, che non ho mai capito se sorridesse davvero o se la sua pelle, collassata sulle labbra, assumesse la formai di un sorriso. Quasi come il solco del pescatore di De André, per intenderci. Così lo lasciavo “sorridere” e parlare, ed erano poche frasi centellinate come un vino d’annata. Mica come quel bianco del cavolo, che ci evaporava dai bicchieri soltanto perché non vedevamo l’ora di vederlo sparire dalla nostra vista. Così lo trangugiavamo sfiniti piuttosto che avidi, vinti dall’alcol e dalla vita come il tenente Drogo di Buzzati. Il mio ex relatore parlava tenue, ricordandomi l’assurdo inizio della mia tesi, e io mi sentivo uno stupido fatto e finito. E lui rideva senza ridere, e io ridevo nervoso senza nessuna negazione al mio stesso nervosismo. Che ben sono incapace di non far trapelare ciò che penso, e benché sia privo di solchi a mo’ di sorriso, ho una faccia che mi si legge dentro come uno specchio rotto, e poche giustificazioni. Così che sì, nervoso io, sorridente lui, schifoso il bianco nel bicchiere. Ti ricordi cosa ti dissi quella volta? No, risposi, ed era vero. Che se anche mi avesse detto la frase della vita, mica me la sarei ricordata. Perché si è tutti un po’ pischelli inconsapevoli, e non c’è nulla di meglio. Soprattutto dopo che il WWH ha sdoganato anche la pischelleria inconsapevole. Ti dissi, concluse, che se proprio volevi fare una tesi su un anarchico alcolizzato, bè, punta su Luciano Bianciardi. Che è italiano e nulla ha da invidiare al vecchio Chinaski! E così andò, con la mia tesi che, da Bukowski, scivola su Bianciardi senza troppi problemi. Con la medesima voglia, curiosità e interesse. Così, amici cari, queste frasi bukowskiane, prima che per voi, sono per il mio vecchio relatore. Che, nemmeno senza poca vergogna, ancora aspetta non-aspettando una mia visita. Soltanto per dirgli che sì, che aveva davvero ragione. E che quella prostituta seduta sotto la pioggia sulla panchina della stazione di Vicenza, bè, io non l’ho mai vista. Ma che se mai decidessi di darmi al sonetto diventerebbe di certo il fulcro di tutta la mia poetica, poche storie! Lei e lo spritz Campari. Perché sì, perché nella dicotomia romanticismo-sentimentalismo ci vuole sempre un po’ di colore. E se poi è un colore rosso (alcolico), ben venga! Così, caro vecchio prof, queste sono le linee guida della testi che non ho scritto. So che non le leggerai mai. Solo, spero di trovare la forza di passartele a leggere in prima persona. Ma, dentro di me, so bene che non accadrà. Perché anche i Tartari sono pur andati all’attacco della Fortezza Bastiani; salvo, però, che il tenente Drogo non era più lì ad attenderli.
Ed ora, bando alle ciance, facciamo un po’ di letteratura:
– «Ricordavo Jane salire quello stesso pendio mentre io trasportavo una sacca piena di bottiglie. Solo che quando lei gridava “Voglio delle pannocchie!” era come se volesse riavere indietro il mondo intero, quel mondo che aveva mancato, o quel mondo che in un modo o nell’altro le era passato accanto. Le pannocchie dovevano essere la sua vittoria, la sua ricompensa, la sua vendetta, la sua canzone». Il romanzo è Hollywood, Hollywood!, l’anno è il 1989. Immaginate di mettere assieme Mickey Rourke, Barbet Schroeder e Charles Bukowski e di farci saltar fuori un film. Bene, sembra qualcosa di assurdo, eppure è accaduto. E Hollywood, Hollywood! è il resoconto di quell’esperienza. Il romanzo di per sé non è eccezionale, se non per la descrizione dell’assurdità del mondo hollywoodiano. Ci sono, però, alcuni passaggi decisamente interessanti. Tra cui quello in cui il vecchio Hank si rivede nel Mickey Rourke alcolizzato con la mania di boxare. Oppure quello sopra citato, in cui Bukowski ricorda la storia di Jane, mezza indiana mezza irlandese, pazza e alcolizzata finita. Non è semplice far uscire dei sentimenti forti dal furto notturno di qualche pannocchia verdeggiante (anche se qualche scrittore hipster è riuscito nell’intento, sostituendo le pannocchie con l’ultimo paio di Clarks). Hank ce la fa, proiettandoci con la scrittura in una specie di caleidoscopio strozzato. Lui a fissare gli attori che recitano il suo passato. E noi a leggere le pagine di una vita disillusa. Andata in scena troppe volte. Scritta e rielaborata in troppi palcoscenici di quart’ordine.
Momento clou per l’utilizzo della citazione in questione: fine serata, a rimorchio inoltrato. Con il piattino di tortilla chips davanti, la salsa bravas sparsa un po’ ovunque e una birra da mezzo sciapa e sgasata. Il connubio pannocchie-tortilla e l’aria da intellettuali alcolizzati faranno il resto. ¡Salud!
– «Le storie nuove erano eccitanti ma erano anche faticose. Il primo bacio, la prima scopata erano cose vagamente drammatiche. La gente era sempre interessante da principio. Poi, lentamente ma inesorabilmente, spuntavano i difetti e la pazzia. Io significavo sempre meno per loro, loro significavano sempre meno per me. Ero vecchio e brutto. Ecco perché mi piaceva tanto sbatterlo dentro le fiche giovani. Io ero King Kong e loro erano tenere e flessuose. Stavo forse cercando di fregare la morte a furia di scopate?». In una video intervista un giornalista belga chiese a Bukowski perché nei suoi libri l’amore sia sempre sinonimo di rapporto sessuale. Il vecchio Hank, bicchiere di rosso in mano, senza scomporsi o fissarlo negli occhi rispose: «Where you get this crap, baby? Da dove ti esce fuori questa merda? L’amore è un cane che viene dall’inferno: porta con sé le proprie agonie! Non so dove vai a prendere certi concetti?» E poi, alzandosi, conclude « Ti sei fottuto il cervello!». Di certo, lo sprovveduto giornalista belga non aveva letto con attenzione Donne (1978), forse il più bel romanzo di Bukowski. Lo avesse fatto, avrebbe risparmiato al mondo intero una figura di merda (crap figure*) del genere, e ci avrebbe anche dispensato dalla solita prosopopea ermeneutica su eros e thanatos, genio e follia, Rivera e Mazzola, birre in lattina e vini in cartone vari.
Momento clou per l’utilizzo della citazione in questione: una sola parola, MILF (giocare la carta dell’autoironia). Anche se, con una certa dose di sano e alcolico istrionismo (attenzione, però, all’utilizzo del linguaggio: un parallelismo fuori luogo e scenderebbe un silenzio glaciale degno dei film di David Lynch), si potrebbe puntare anche al lato opposto della barricata, ovvero alle TEENIES. L’utilizzo con la categoria “teenies outside, grannies inside” è indimostrato come la fusione fredda. Sláinte!
– «Di punto in bianco stese le gambe e si tirò su la sottana. Non portava le mutande. Vidi i suoi fianchi enormi, fiumi di carne. All’interno della coscia sinistra c’era una grossa verruca sporgente. E aveva una giungla di peli aggrovigliati tra le gambe, ma non biondi e splendenti come i suoi capelli; erano scuri e striati di bianco, vecchi come un cespuglio morente, senza vita, tristi. Mi alzai in piedi. “Devo andare, Mrs. Hatcher”. “Cristo, credevo che volessi divertirti un po’!”. “Non con suo figlio nell’altra stanza, Mrs. Hatcher, devo proprio andare”. “Va bene, allora alza il culo e porta fuori di qui quel tuo pipi da lattante!”. Mi chiusi la porta alle spalle, andai giù per il corridoio e poi fuori in strada. E pensare che qualcuno si era suicidato per quella roba.» Panino al prosciutto (1982) è, almeno nel suo titolo, l’omaggio di Bukowski a Il giovane Holden di Salinger. Seguendo l’assurda deriva delle traduzioni italiane di titoli inglesi (Eternal Sunshine of the Spotless Mind che diventa Se mi lasci ti cancello grida ancora vendetta!), quello che era The catcher in the rye (“il prenditore nella segale”) diviene Il giovane Holden; mentre Ham on rye (“prosciutto su segale”, ma rye è anche un tipo di whiskey) di Bukowski diviene Panino al prosciutto. Ben più fedele alla linea dell’originale, ma pur sempre un gioco di parole intellegibile ai più. In ogni caso, Panino al prosciutto è la storia dell’infanzia del vecchio Hank, dalla nascita in Germania all’adolescenza americana. Passando per le varie vicissitudini familiari e le iniziazioni (concrete o semi-consumate) ad alcol e sesso. Non a caso la citazione in questione parla proprio di questo, ovvero del tentativo (non andato a buon fine) del giovane Hank di “spaccare in due” la madre di un suo compagno di classe, finito sbronzo e sfatto nella camera accanto.
Momento clou per l’utilizzo della citazione in questione: volete fuggire da una situazione sentimentale spinosa nella quale vi siete cacciati per colpa di qualche birra di troppo? Bene, questa è la citazione che fa per voi! Gonfiate il petto e datevi un’aria da finti duri, poi fate training autogeno per convincervi che no, che dopotutto non state perdendo niente di che (la tattica della volpe e dell’uva funziona sempre!), infine andatevene via decisi, e non alla chetichella. No porte sbattute, no urla, no sceneggiate da commedia napoletana. Semplicemente uscite e lasciate il campo. Diretti al prossimo bar. La strada dell’ubriachezza, così come quella dei sentimenti, è costellata da bottiglie rotte. Ein prosit!
– «Mi restituì la penna e la ricevuta firmata… uno scarabocchio. Aprì la lettera, cominciò a leggere mentre io mi voltavo per andarmene. Poi me la trovai davanti, era tra me e la porta, con le braccia spalancate. La lettera era per terra. “Bruto! Bruto! Vuoi violentarmi!” “Senta, signora, mi faccia passare.” “TE LO SI LEGGE IN FACCIA CHE SEI UN BRUTO!” “Lo so già. E adesso mi lasci uscire.” Cercai di spostarla di lato con una mano. Mi graffiò una guancia, un bel graffio. Lasciai cadere la borsa, persi il berretto, e mentre mi stavo tamponando il sangue con un fazzoletto lei attaccò l’altra guancia. “BRUTTA PUTTANA! SI PUO’ SAPERE CHE CAZZO TI SEI MESSA IN TESTA?” “Visto? Visto? Sei un bruto!” Mi stava addosso. Le afferrai le chiappe del culo e misi la bocca sulla sua. Sentivo quei seni contro il petto, mi stava tutta addosso. Buttò indietro la testa, per scostarsi… “Bruto! Bruto! Vuoi violentarmi!” Abbassai la testa e le presi in bocca una tetta, poi passai all’altra. “Aiuto! Aiuto! Mi violentano!” Aveva ragione. Le tirai giù le mutande, tirai giù la cerniera dei pantaloni, glielo misi dentro, poi la trascinai verso il divano. Cademmo sul divano. Alzò le gambe in alto. “AIUTO!” gridò. Sborrai, mi tirai su la lampo, raccolsi la borsa della posta e me ne andai lasciandola lì a fissare assorta il soffitto…». Bukowski lavorò per le poste degli Stati Uniti per più di un decennio. Di questa sua esperienza ci resta il romanzo Post Office (1971), forse il suo libro più famoso assieme alla raccolta di racconti Storie di ordinaria follia (e anche qui, vedi sopra, come si fa a tradurre Erections, Ejaculations, Exhibitions and General Tales of Ordinary Madness in Storie di ordinaria follia, dio solo lo sa! Cazzo, si perde tutto il succo del titolo!). Post Office è il resoconto della vita scalcinata di Henry Chinaski – Charles Bukowski a contatto con donne, pacchi postali, superiori sadici, assurdità burocratiche e tanta, tantissima birra. Questo è il riassunto in versione bignami. Per il resto, dato che la lettura è opzionale, c’è Wikipedia. In ogni caso, Post Office trasuda in molte parti il sentimentalismo bukowskiano, che sarà anche greve e inaspettato ma, in ogni caso, riesce a trasparire da azioni che, a primo acchito, con il sentimentalismo non hanno nulla a che vedere. Non è il caso della citazione in questione, ovviamente, episodio tangibile dei sogni erotici di ogni postino, venditore porta a porta, assicuratore, fake agent o rappresentante della Bo Frost. Ciò che centinaia di registi porno hanno trasformato in episodi da video su Youporn per smanettoni era già stato sviscerato (esibito) dal vecchio Hank. Il quale si lascia alle spalle ogni romanticismo e, tra grida e unghiate, svolge il suo dovere. Ovvero recuperare una raccomandata. Salvando, così, l’onore delle Poste degli Stati Uniti d’America. Veterano.
Momento clou per l’utilizzo della citazione in questione: vi è mai capitato di simulare qualche scenetta per ravvivare l’intesa sessuale di coppia? Bene, questa è la trama che fa per voi. Lasciate perdere corde e imitazioni di supereroi (il tipo che, imitando Batman, si sfracella a terra e sviene nel tentativo di simulare il volo planare sul letto dove è ancora legata la sua partner nuda è ancora al top delle crap figure* legate alla sfera sessuale…) e concentratevi sul postino! Sbronzatevi ben bene e poi, con una finta lettera (meglio astenersi bollette o cartelle di Equitalia, saprebbero far crollare anche le libido più accese), capitate in casa della partner in questione. Il resto sta alla foga della vostra compagna, nonché alla sua abilità recitativa. Le Poste Italiane, gentilmente, ringrazieranno. Posta prioritaria tutta la vita! Cheers!
Così si esauriscono anche queste brevi citazioni bukowskiane che, in una giungla di romanzi da spiaggia, 50 sfumature di grigio/rosso/bordeaux e colori vari, sembrano quasi restituire (oltre che il sorriso) anche una sorta di rapporto meno assurdo con la sfera della sensualità e del sentimento. Perché sì, perché in fondo l’estate vive del calore della semplicità e del calore dei corpi. Ovvero del calore della semplicità dei corpi. E tutti i ricordi che ritornano alla mente, le birre bevute, le avventure estive giovanili, sono l’ennesima benzina che ci buttiamo in corpo, anno dopo anno, per vivere le nostre vicende quotidiane con quell’ipotesi di spensieratezza e leggerezza che, calvinescamente, cerchiamo di ricreare per poter star bene con chi ci circonda. E allora ben vengano i sorrisi, ben vengano gli eccessi. Ben vengano le eiaculazioni, le erezioni, le esibizioni e tutte le altre storie di ordinaria follia che hanno costellato e costelleranno la nostra esistenza. Perché la misura della consuetudine e della massa è la più grande forma di sterilizzazione che ci sia stata messa davanti. E allora si ritorna al passato. Allora si ritorna all’eccesso. E al romanticismo vuoto ma sdolcinato si risponde con la frase cruda e greve. Sentita, però. Sentimentale, senza ombra di dubbio. Perché l’essenza del sentimento si nasconde nei liquidi, non nella secchezza. Perché è umidità ciò che cerchiamo, non sterilità. E l’afa malvagia e carontesca che ci imperla i corpi sembra essere nata apposta per invitarci alla condivisione del sudore. Alle lenzuola inumidite. Ai corpi nudi. Alle frasi impensabili sussurrate nei lobi delle orecchie, tra deliri vari, privazioni, condivisioni inaspettate.
Ecco, questa era, a grandi linee, la “tesi” che avrei voluto scrivere. Non mi sarei mai laureato con questa roba, ne sono certo. Eppure tutte quelle pagine di Bukowski lette su un divano arancione scassato, con le zanzare tigre a martoriarmi le braccia e con Punkislam in sottofondo mi hanno forgiato più di una laurea magistrale. E ben lo so che i ricordi non sono univoci, e che i ricordi di ognuno, più che una terra straniera, sono un arcipelago nascosto, che si alimenta di sogni, pensieri, idilli e alcolici vari. Tuttavia anche la condivisione dei ricordi è in sé nostalgia creatrice. Perché sono sicuro che ognuno di noi ha (in testa, nel cuore o nelle vene) una “tesi” non scritta. Ovvero una sequenza di sentimenti romantici, capaci di affollare la mente come vecchi libri svolazzanti all’interno di stanze sferzate dal vento violento di mezza estate. E tant’è. Perché il vento si alza e si alzerà sempre. Portando scompiglio in quelli che sono i nostri ricordi e i nostri sentimenti. In quello che è la nostra romantica sensualità. «In quelle stanze in cui, alla mezza luce delle quattro di mattina, un uomo ridotto sullo scaffale del nulla era abbastanza giovane per rimanere giovane per sempre.» Alone Together con se stesso, insomma.
Più semplicemente:
vivo in stanze di gloria.
Andrea Gratton