Lo spazio dei lettori

Esegesi della Tempesta di Merda – ovvero come collassare felici in 5 semplici mosse

«Come quasi tutti i capi nella storia del genere umano, i re e i nobili maya non tennero conto dei problemi a lungo termine, posto che fossero in grado di accorgersene. La passività dei re maya di fronte alle vere e grandi minacce che incombevano sulle loro società ci fa pensare all’estremo esibizionismo consumistico dei giorni nostri». (J. Diamond – Collasso)

Il 21 dicembre 2012, stando all’interpretazione del calendario Maya fatta da alcuni ricercatori new-age strafatti di peyote (ergo perfetta per una diffusione globale), il nostro caro vecchio mondo avrebbe dovuto tirare le cuoia. Collasso, catastrofe, tabula rasa, pochi cazzi! Chiaramente non vi era anima viva che fosse in grado di giustificare quest’eventualità tuttavia, a furia di speciali di Studio Aperto e interviste al Divino Otelma, una buona fetta della popolazione italiana è finita con il credere a questa baggianata, traslando così la pratica più diffusa della politica tricolore (la menzogna) alle teorie millenaristiche sulla fine del mondo. Un po’ come sembra che nessuno abbia mai votato Berlusconi (e, prima di lui, quei “filibustieri” di democristiani, che non ci leveremo mai dalle palle tipo i Gremlins o i libri di Fabio Volo…) salvo poi ritrovarselo sempre in mezzo all’Emiciclo, allo stesso modo nessuno credeva realmente alla fine del mondo, salvo poi aver comprato forniture a vita di spaghetti alla scogliera liofilizzati o rifugi anti-atomici in leasing. Tuttavia, se l’italiano medio fosse stato più attento al Maya-gate e meno al Ruby-gate, si sarebbe reso conto che, se i sacerdoti Maya avevano stilato un calendario astrale con scadenza 2012, la loro civiltà era bella che finita da quasi un millennio, collassata sotto i colpi di ribellioni, di rivolte, di governanti miopi e incapaci e degli editoriali di Giuliano Ferrara. In sostanza, crogiolandosi sugli allori del passato e confidando in un futuro che avrebbe chiesto il conto soltanto nel 2012, i cari vecchi Maya si sono “estinti” un millennio prima. Dimostrando una lungimiranza paragonabile soltanto a quella degli azionisti di Facebook. Un filosofo francese del XII secolo, Bernardo di Chartres (Berny, per gli amici), utilizzò una bellissima immagine per rendere l’idea delle popolazioni che, convinte di essere ancora sulla cresta dell’onda, non si rendono altresì conto di vivere di luce riflessa. Ovvero delle glorie del passato che, avendole innalzate a chissà quali vette dello scibile umano, permettono loro di continuare a crogiolarsi in un qualcosa che si è ormai irrimediabilmente dissolto. Un po’ come il rapporto dei Rolling Stones con la musica rock, o di Paolo Villaggio con la comicità. L’immagine scelta dal caro Berny era quella dei nani sulle spalle dei giganti, i quali «possono sì vedere più cose di loro e più lontane, ma non certo per l’altezza del proprio corpo bensì perché sollevati e portati in alto dalla statura dei giganti stessi». Quest’immagine è degna di nota e, benché ci possa sembrare abbastanza vuota e rimasticata, ha in sé numerosi spunti di riflessione. I quali potrebbero facilmente essere analizzati con sagacia e lucidità in numerosi convegni universitari di letteratura o antropologia. O, con risultati decisamente migliori, al bar del paese, con in mano un mazzo di carte, un rosso alla spina e quattro patatine svampite, che ben si presterebbero a copertura fono-isolante per i monolocali moderni. Quelli in cui (grazie mille, urbanizzazione selvaggia!) ti tocca cenare con il sottofondo dei tuoi vicini di casa che ripassano il kamasutra o che si prendono a mazzate perché il polpettone non era abbastanza cotto. Insomma, molte società sono vittime dell’incapacità di prendere coscienza della loro stessa inadeguatezza o, nel migliore dei casi, dell’approssimarsi della loro fine. In antropologia quest’incapacità di guardare in faccia la realtà prende il nome di “rincoglionimento”. E poco importa ci crediate o meno, perché se il correttore del mio programma di videoscrittura non mi cassa la parola “rincoglionimento” vuol dire che è universalmente accettata. Il rincoglionimento, dunque, citando il buon Claude Lévi-Strauss «è una macchina per sopprimere il tempo», quindi va da sé che tanto più si è rincoglioniti, quanto meno ci si rende conto del tempo che passa. Non a caso, per la maggior parte degli italiani, il libriccino di merda in cui Berlusconi idolatrava se stesso non è vecchio di venti anni, bensì al massimo di qualche settimana. Tanto che sembra quasi ci sia capitato solo l’altro ieri nella buca delle lettere, assieme al catalogo dell’IKEA e alla bolletta della luce. E invece no, perché il tempo passa e il rincoglionimento si accresce, e ciò che ci resta non è tanto il libriccino di merda di Berlusconi (il libriccino no, però ci resta Berlusconi…), il catalogo dell’IKEA o le bollette della luce, bensì una società allo sbando. Una società che, per tirare in ballo l’antropologo americano Jared Diamond e la sua barba alla Abramo Lincoln (oggi va così, non vogliatemene…oggi si parla di antropologia, poche storie!), deve il suo rincoglionimento «al governo che ne pianifica la conquista e alla religione che la giustifica». Tuttavia sarebbe una grazia troppo grande scaricare le colpe alla Chiesa e alle Istituzioni (e perdonatemi le iniziali maiuscole…), diventando tutti dei novelli Ponzio Pilato che si lavano le mani davanti allo sfascio sociale che ci avvolge in ogni dove. Perché sì, perché la realtà è che siamo uno Stato allo sbando e che, sostanzialmente, ce ne fottiamo alla grandissima. Convinti che, prima o poi, i fatidici giganti del nostro passato torneranno a innalzarci quel tanto che basta per non ingoiare la bolañana “tempesta di merda” che è in arrivo e che, alla faccia degli editor di Bolaño, col piffero che si tramuterà in un “Notturno Italiano”. Bensì resterà ciò che deve essere: una tempesta di merda tout court, appunto. In ogni caso, fedele agli esperimenti antropologici dei vari René Girard, Claude Lévi-Strauss (che non è quello dei jeans…) Jared Diamond e chi più ne ha più ne metta, ho deciso di passare alcuni mesi osservando non sconosciute popolazioni amazzoniche o polinesiane in via di estinzione, bensì Italiani Medi, deciso a capire come sia potuto accadere tutto ciò. Ovvero come il Genio Italico, alla pari del Dodo (Dodo, non Dodò il pupazzo psicopatico de “L’albero azzurro” che ha allietato l’infanzia di milioni di bambini, altro che quell’eroinomane di Tonio Cartonio…) sia andato estinto. Facendo sì che si avverasse la dantesca massima del «lasciate ogni speranza voi che entrate». Inutile dire che l’entrata in questione è quella del Bel Paese, non più terra di Santi, Poeti e Navigatori, piuttosto di Don Verzè, Fabii Volo e Capitani Schettino vari. Ora, per dovere di cronaca, ecco gli esempi più eclatanti a sostegno delle mie teorie:

I negozi di sigarette elettroniche: belli i tempi in cui il tabagismo (o la sua negazione) era una scelta di vita. Ideologica, farlocca, esagerata, autodistruttiva. Mettetela come volete, però era una scelta. L’italiano, finalmente, decideva di schierarsi! Un po’ come nella vecchia politica, dove si teneva una bandiera e solo quella. E ci si incaponiva, a costo di ritrovarsi a scatarrare pozze di muco marrone o ad annusarsi le dita ingiallite dal tabacco. La sigaretta era trasversale e, al tempo stesso, settorializzante. Non accettava mezze misure! «Bah, io fumo solo una cicca ogni tanto!». Col cazzo! Se ne fumavano pacchetti interi, e la crisi economica aveva solo allargato il raggio d’azione del tabacco da rollare. Il quale, da risorsa per i soliti squattrinati della prima ora, si era tramutato in una fonte di risparmio un po’ per ogni classe sociale. Poi, dopo la buffonata del libro su come smettere di fumare («Amici, ho preso il libro: voglio smettere!» penso di aver sentito questa cantilena per lo meno un milione di volte…), ecco l’avvento del Movimento 5 Stelle del tabagismo, ovvero la sigaretta elettronica. Ottima fusione tra la nerdaggine e il fascino dell’elettronica (di cui parleremo più avanti), la sigaretta elettronica unisce all’inutilità del libro su come smettere di fumare, l’aspetto dannoso della nicotina insita nelle sigarette. Eliminando, però, il fascino visivo di queste ultime. Che, tabagisti o meno, ve li vedete Mastroianni o De André con in bocca una sigaretta elettronica (e-cig, per i puristi di stocazzo), manco fossero gli ultimi bimbiminkia dell’universo? Quelli che devono farti sapere in ogni modo che possono fumare ovunque, dal cesso del bar alla sala d’aspetto del pronto soccorso, manco ce ne fosse effettivo bisogno. Manco ce ne fosse la reale necessità. Perché, come dice il buon Diamond – Lincoln, «spesso l’invenzione è la madre della necessità, e non viceversa». Altresì, non è il bisogno di fumare sigarette da nerd raffazzonate ad aver creato questa moda aberrante, bensì è la moda stessa a metterlo nel culo degli e-smokers. In stile prigione del Monopoli: direttamente e senza passare dal via.

– Le biciclette da corsa: sono consapevole che, con questa categoria, rischio di attirarmi l’odio di un sacco di gente, tuttavia voglio andare fino in fondo, che vi piaccia o meno. Un ulteriore esempio del rincoglionimento dell’italiano medio è la diffusione smodata di biciclette da corsa. E, badate bene, non mi riferisco ai cultori della mitica Graziella o a tutte quelle persone che, per piacere o necessità, si trovano costrette a macinare decine e decine di chilometri al giorno in bicicletta, vittime di Poliziotti Municipali con manie di protagonismo, medici allarmisti, compagne/compagni salutisti o, perché no, del loro stesso genio maligno che prende il nome di Fitness. No, mi riferisco a tutte quelle persone che, coinvolte nell’ennesima moda italica che risponde al nome di “ciclismo revival” hanno investito migliaia e migliaia di euro in biciclette, contachilometri satellitari, tutine inguinali, caschi fallici, scarpette vintage, mutande serigrafate da Lance Armstrong e chi più ne ha più ne metta. Il tutto in funzione di un’uscita domenicale una tantum. Uscita che, dopo alcuni mesi di full immersion (doverosamente pubblicizzati su social network vari, manco si trattasse di una notizia di pubblico interesse), finiscono con l’appendere la bici al chiodo. Vivendo, però, di mitici ricordi di medie inenarrabili. O di salite memorabili che, stante alle loro parole, il caro Fausto Coppi buonanima nemmeno se le sognava. E si finisce, così, a commentare un’uscita di un paio d’ore manco fosse la tappa del Mortirolo al Giro d’Italia. Con radiocronaca abusiva annessa che, se non si conoscesse il personaggio in questione, quasi ci si aspetterebbe l’arrivo di Davide Cassani per il “Processo alla Tappa”. Anche se, con ogni probabilità, l’uscita in questione è più vicina alle gesta della fantozziana Coppa Cobram. “Bomba” clandestina annessa…

I ristoranti “all you can eat”: alzi la mano chi, nella propria compagnia, non ha mai avuto un amico specializzato in “ristoranti laidi”. Nessuno, appunto! Perché, in ogni compagnia che si rispetti, c’è sempre stata la guida Michelin umana ai ristoranti “poca spesa, tanta resa”. Ovvero a quei locali che, a fronte di un conto da poche decine di euro per persona (rigorosamente pagato in neo e alla romana), ti sommergevano di piatti più o meno decorosi e litri e litri di vino dalla provenienza dubbia ma, allo stesso tempo, assolutamente indifferente nell’economia etilica della serata. Era un piacere, infatti, prendere la macchina e seguire il Filini di turno, girando come ossessi per strade provinciali semisconosciute alla ricerca di infime bettole su cui aleggiavano assurde leggende di prezzi bassissimi e piatti stracolmi di cibo. L’idea di perdersi era già messa in preventivo (fanculo, navigatore satellitare! fanculo!), e la vera sfida non era ripulire i piatti e svuotare le caraffe, bensì conteggiare il numero di amari che ci si sarebbe fatti offrire dal proprietario del locale nel fatidico momento del conto. Ora, tutto ciò va scomparendo. Il confronto umano con locandieri, osti, trattori e ristoratori vari si consuma nella diffusione dei ristoranti all you can eat a prezzo fisso. Giri-pizza, giri-carne, giri-pesce, giri pasta, ristoranti asian-fusion, sushisashiminobu, chinese ex take away new japan style e chi più ne ha più ne metta. Il prezzo è fisso, la qualità infima, il rincaro per le bevande assurdo. Stipati come polli in batteria si finisce per mangiare gomito a gomito con sconosciuti incarogniti, affamati all’inverosimile, che si alzano ogni un per due al fine di razziare un buffet di cibarie che, se non fossero gratuite, nemmeno si sognerebbero di guardare. Il tutto senza nemmeno la possibilità di sbattersi in bagno la radical chic di turno, come il buon Colas di Andrea Pazienza. I ristoranti all you can eat sono il male fatto ristorazione, e contribuiscono alla morte delle bettole più infime e laide d’Italia. Quelle che hanno svezzato milioni e milioni di mangiatori e bevitori seriali che, di fronte a un conto sghembo, si permettevano ancora il lusso di lasciare la mancia. A patto, però, che in tavola saltasse fuori l’ultimo giro di limoncelli. Se poi i giri erano due, ancora meglio!

– L’acqua in bottiglia di plastica: fortunatamente, a fronte di rare eccezioni, l’Italia è un paese ricco di risorse idriche. L’ “acqua del sindaco”, infatti, oltre a essere quasi ovunque assolutamente potabile ha un costo irrisorio, e viene sempre più affiancata dalle “casette dell’acqua”, gabbiotti di muratura con due rubinetti che dispensano (a prezzi poco meno irrisori) litri su litri di buonissima acqua naturale e frizzante. Tutto questo ben di dio (andate ben a chiederlo a Vandana Shiva cosa vuol dire patire la sete), però, non è sufficiente a placare il rincoglionimento dell’italiano medio il quale è il più grande consumatore europeo di acqua in bottiglia di plastica. In sostanza, l’italiano medio preferisce spendere più soldi per portarsi a casa dell’acqua di qualità non sempre così nettamente superiore, accollandosi il disturbo di caricare e scaricare pesanti casse d’acqua e di smaltire bottiglie di plastica quando, semplicemente, potrebbe aprire il rubinetto dell’acqua di casa e/o dotarsi di alcune bottiglie di vetro da riempire alla fontana più vicina. La vera domanda, a questo punto, è la seguente: perché lo fa? Me lo sono domandato migliaia di volte e, a oggi, non ho ancora trovato risposta a questo mio dubbio. René Girard identifica nel “desiderio mimetico” (ovvero la volontà di imitare qualcuno che ci appare felice) una delle matrici che muovono la società occidentale. Tuttavia, fissando i volti degli acquirenti di casse d’acqua in plastica al supermercato, vedo solo gente inviperita e corrucciata. Infastidita dal pesante fardello ma, allo stesso tempo (un po’ come il vecchio Alex “post-trattamento” di Arancia Meccanica con il buon Ludovico Van) impossibilitata a farne senza. L’apice della stupidità italiota, però, è raggiunto dalla nuova moda delle bottiglie ecologiche, ovvero quelle prodotte con derivati del mais, capaci così di essere smaltite con i rifiuti organici. Quanto ci si sente eco-chic nel comprare le eco-bottle™ (che nome raffinato! eco-bottle, si sente che, solo a pronunciarlo, si fa del bene all’Umanità…) e servirle poi ai propri ospiti eco-friendly! Poco importa, quindi, se per trasportare bancali su bancali di acque ecologiche dal centro di produzione ai vari supermercati si siano mossi centinaia di bisonti della strada super inquinanti. Mostri su gomma che producono tonnellate su tonnellate di CO2. CO2 eco-friendly, ovviamente, ma pur sempre CO2…

I centri-massaggio orientali: last but not least, ecco come il rincoglionimento neo-italiota si è impossessato anche della nostra sfera sessuale, con la placida accondiscendenza dei business man cinesi. Sempre pronti a sfruttare le nostre debolezze, dai giocattoli in plastica radioattiva a forma di Hello Kitty, alle mutande con il disegno dei 100 euro, che se si fa una radiografia schermano anche il fascio di fotoni più cazzuto (storia vera, non urban legend…). La verità, amici cari, è che l’italiano medio non ha più nemmeno voglia di masturbarsi, finendo così col delegare l’arduo compito alle sapienti mani (mi si passi il facile doppio senso) della “massaggiatrice orientale” di turno. La quale, per cifre nemmeno troppo modiche, si prodiga nella terziarizzazione non della professione più antica del mondo, bensì in quella dell’atto d’amore più puro. Ovvero quello verso noi stessi. Finiti i bei vecchi tempi dei giornaletti porno nascosti in bagno! Addio alle varie collezioni di Teletutto, Le Ore e compagnia “manovella” varia! Esclusi sul nascere anche i fatidici puttan-tour (quelli romantici, però, in cui si spendevano un sacco di deca in benzina ma, in sostanza, non si combinava nulla…una sorta di approccio immaginifico e sognante al sesso a pagamento, come nel realismo magico di Garcia Marquez), i nuovi adolescenti “digitali” (nel senso più arcaico del termine) sono ora uomini di mezza età finiti in un assurdo vortice di analfabetismo pornografico, frustrazione casalinga, repressione sessuale e via discorrendo. Al che, escluse le sale-slot (altra piaga italiota), resta soltanto la masturbazione coatta. Piacere appagante quanto l’ammissione di impossibilità relazionale, vero e proprio tabù dell’italiano medio. Il quale, convinto ancora di camminare a testa alta a dieci metri da terra, passeggia invece (citando il buon vecchio Berny) appollaiato sulle spalle di giganti. Giganti che in maniera nemmeno troppo virtuale o se la sono svignata o, più semplicemente, si sono rotti i coglioni di donare luce riflessa a un popolo che in larga parte, parafrasando l’ottimo Piero Ciampi, ha «semplicemente perso la bussola».

Perché sì, perché la verità è che lo vediamo in un sacco di esempi che la bussola è già da un pezzo che è andata a quel (Bel) Paese. E non servono antropologi sosia di Abramo Lincoln o calendari Maya a spiegarlo. Perché la realtà è già radicata in noi, e ogni cosa ci è palese. Perché ogni cosa (e non me ne voglia Jonathan Safran Foer), lungi dall’essere illuminata, è così chiaroscurale che la soglia del vedo – nonvedo – maforseèmegliochenonvedo, è diventata la dimensione della sopravvivenza italiota. Così che ogni stupido moralismo si stempera sul nascere, e la risata agra non riesce a portar via quell’incazzatura fumantina che ci dovrebbe trasformare, se non in ipotetici Luciano Bianciardi di turno (cazzo, ma ci pensate mai al Bianciardi a vedere questi segaioli fare il paio con le nuove mezze tacche del calcio patinato moderno?), quanto meno in sosia di Michael Douglas in Un giorno di ordinaria follia. Perché non ci rimangono nemmeno più le storie assurdamente crudeli di una deriva bukowskiana degli eventi (ce li meritiamo i cinepanettoni, pochi cazzi!) e lo squallore e la stupidità non sono più la cifra di una sofferenza inevitabile da cui prendere le misure per un’ipotetica rinascita (caro vecchio Fëdor D., la bellezza non ci ha salvati, sappilo! Vabbè che è stata botulinata, ma la missione era in ogni caso ardua), bensì il piatto di ogni giorno. Sdoganato e accettato, spesso per noia, senza colpo ferire. E allora ve lo voglio dire (e fanculo ogni tipo di captatio benevolentie o tarantiniani “pompini a vicenda”!) che ciò che scrivo lo scrivo perché venga letto da chi non si riconosce in tutte queste categorie. Da chi le vede sì ogni giorno però, lungi da stigmatizzarle come il solito radical chic di turno, le combatte e devasta come una medievale onda barbarica. Perché la verità è che non bisogna accettare il cambiamento, bensì amarlo e diffonderlo come una peste. Perché ben ce lo ha spiegato Camus che la discriminante non è il ritorno dell’uomo, bensì quello del ratto. Perché sono le specie più forti a dare la dimensione della sopravvivenza, e di certo non quelle che taroccano Dolce&Gabbana per andare a farsi l’aperitivo a buffet. O che millantano passati gloriosi con cui, per dirla alla Pazienza (e due!), si sentono autorizzati a ribadire al mondo intero che non cagano.

Perché è «un fatto che si sono inventati loro, cioè un mito che non esiste!».

Perché non siamo noi che non caghiamo, ma gli altri che ci hanno emarginato!

E così è.

E non vogliatemene di questo sfogo.

La prossima volta vi racconterò di come rimorchiare citando libri melensi del cazzo.

Oppure vi farò l’elenco delle dieci scene più cattive di Zanardi.

Oppure, semplicemente, non vi racconterò nulla. Perché sulle spalle dei giganti ci vivo anch’io e, dopotutto, nel ribadirlo mi sento un Pigmeo.

Un Pigmeo in attesa della tempesta di merda.

Andrea Gratton

WIDGET 1

Vuoi essere stalkerizzato dall'Oltreuomo?
ISCRIVITI al nostro canale TELEGRAM @OltreuomoBlog