Alcol e scrittori
Un grande centro commerciale a fine luglio. La filodiffusione interna a trasmettere “L’estate sta finendo” (per altro non la versione dei Righeira, bensì una cover). Fuori un temporale clamoroso, condito da una pioggia scrosciante. Ecco, non credo ci sia nulla di più significativo di quest’immagine per descrivere il sadismo meteorologico di quest’estate. Personalmente non sono un grande appassionato di meteorologi, previsioni del tempo, siti che controllano via satellite l’alta o la bassa pressione, cicloni provenienti dalle Azzorre, perturbazioni varie, blocchi d’aria siberiani e chi più ne ha più ne metta. Mi limito a subire l’influsso del tempo un po’ come tutti, anestetizzando con varie modalità i moccoli che vorrei tirare quando mi muovo in Vespa e scopro che il cielo limpido e terso del mattino si è trasformato nella brutta copia di un quadro di Caspar Friedrich. Quest’estate che non vuole saperne di arrivare, però, ha indubbiamente qualche aspetto positivo: non permette ai siti e ai telegiornali di tediarci l’anima con tutta una serie di servizi preconfezionati sul bikini dei famosi, le gare di castelli di sabbia, l’emergenza caldo, i consigli su come e quando uscire in caso di solleone, le ricette da portare sotto l’ombrellone e tutta un’estesa e vastissima serie di inutili vademecum da spiaggia che vengono riciclati di anno in anno dalle redazioni dei vari canali d’informazione. Certo, il rovescio della medaglia è quello di sorbirsi odiosi reportage sull’estrema piovosità dell’estate 2014 oppure asettici meteorologi in giacca e cravatta intenti a spiegarci scientificamente perché quest’anno è meglio uscire in k-way piuttosto che in t-shirt. Tuttavia a costoro vi è una ben pratica soluzione: consiste nel cambiare canale o, nel caso vi trovaste online, cliccare immediatamente su qualche sito avulso all’informazione. Nella maggior parte dei casi si consiglia Youporn. Un meteorologo stronca-gonadi si può fuggire agevolmente. Un servizio sulle gare di mangiatori di angurie da spiaggia, invece, potrebbe essere fatale per la salute psichica.
Tra i servizi estivi che più mi urtano il sistema nervoso vi è di sicuro quello sui consigli per le letture “da ombrellone”. Finestre educative in cui sedicenti esperti del ramo editoriale si prodigano in suggerimenti per letture consone al periodo estivo. E poco importa se in estate l’italiano medio legga raramente qualcosa che non sia “La settimana enigmistica” (barzellette incluse), “Chi” o “La Gazzetta dello Sport” (di solito quasi solamente la parte dedicata al calciomercato). Poco importa se il popolo italiano è per antonomasia un popolo di non-lettori. Vi è sempre qualche canale informativo pronto a suggerirci quale volume portare in spiaggia. In modo che sia alla mercé di sabbia, acqua salata, scorze di angurie e rimasugli di cibo vari, declinati a seconda delle passioni gastronomiche locali. Il perché a un libro cartaceo (esclusi i volumi della Newton Compton, ovviamente) debba essere imposta una tale tortura continua, per me, a essere un mistero. Ugualmente resta un mistero il criterio di valutazione che spinge un giornalista a consigliare un libro “da ombrellone” piuttosto di un altro. L’età del lettore? La tipologia di vacanza? Il colore del costume da bagno? La provenienza geografica? Il numero della protezione solare? Ai posteri l’ardua sentenza. Fatto sta che il non essere bombardato da consigli di lettura estiva da qualche intellettuale in giacca e camicia è già qualcosa di positivo. O, per lo meno, qualcosa di sufficiente a farmi sopportare quest’estate che non arriva. Per il resto, come per la maggior parte delle cose, c’è l’alcol: ovvero la Mastercard di tutti coloro che non hanno (e mai avranno) Mastercard. Una sorta di tautologia inversa.
Perché sì, perché se il connubio estate-servizi giornalistici “demmerda” è un amarcord quasi felliniano, lo stesso dicasi per il connubio alcol e scrittura. Connubio trito e ritrito, direte voi, tuttavia connubio che cercherò di investigare secondo nuove direttrici. Non più cercando di sottolineare il già abbondantemente eviscerato rapporto tra alcol e capacità creative (il “write drunk, edit sober” di Hemingway credo sia sufficientemente esplicativo), bensì parlando di scrittori e di qualcosa che li riguarda molto da vicino. Ovvero i loro drink preferiti. Perché, poche storie, moltissimi scrittori famosi hanno e hanno avuto dentro di sé un beone pronto a fare i capricci per quell’unico e solo drink. Adesso è giunto il momento di scoprire quale! Per bilanciare l’assenza coatta di servizi sui consigli di lettura da ombrellone, suggerirò un titolo per ciascuno scrittore. Trattandosi di titoli non canonicamente estivi (quanto meno per la redazione di Studio Aperto), se ne consiglia la lettura con il drink preferito dall’autore che li ha scritti. I più folli e multimediali di voi potranno scattarsi un selfie con il volume in questione (edizione tascabile) e il cocktail a esso correlato, e poi fare mail-bombing a tutte le redazioni giornalistiche che continuano ad ammorbarci l’anima con servizi del genere. A tutti gli altri consiglio semplicemente di procurarsi degli alcolici di bassa fattura, miscelarli, e iniziare a leggere.
– Oscar Wilde (1854-1900): il grande scrittore irlandese fu certamente uno dei più grandi autori dell’800. Teatro, narrativa, saggistica, aforistica, poesia: Wilde esplorò quasi ogni possibilità datagli dalla scrittura, e lo fece con estrema bravura e con uno stile tanto piacevole quanto inconfondibile. Di lui ci restano dei classici della letteratura mondiale quali “L’importanza di chiamarsi Ernesto” o “Il ritratto di Dorian Gray”, nonché una biografia tanto avventurosa quanto, per lo meno nella sua parte finale, drammatica. Sperperata buona parte del suo patrimonio in processi (Wilde venne accusato di condotta deplorevole in quanto omosessuale e, da lì, condannato a due anni di prigionia con l’aggiunta dei lavori forzati), Wilde visse l’ultima parte della sua esistenza in precarie condizioni economiche e di salute. Nonostante fosse affetto da nevrastenia e sifilide terziaria (anche se alcune ricerche parlano di una semplice otite mal curata, degenerata poi in un’infezione che colpì il cervello dello scrittore), Wilde non rinunciava alle sue due principali passioni: lo champagne e l’assenzio, che beveva quotidianamente. Proprio l’Assenzio era il drink preferito da Oscar Wilde. Il quale, da vero esteta, aveva ripreso la passione dei decadentisti francesi per la Fata Verde. A discapito dei titoli maggiori di Wilde, il mio consiglio di lettura cade invece sugli aforismi (che Wilde non concepì mai come corpus unitario, ma a cui si dedicò tutta la vita): vere e proprie perle di saggezza e stilettate critiche di un cinismo e una godibilità difficilmente emulabile. Lettura da accompagnarsi a qualche bicchiere di assenzio, da bersi rigorosamente “alla francese”: zolletta di zucchero, fiamma, acqua fredda e cucchiaino forato. Miscelare in senso orario e bere con calma e voluttà.
(“Il lavoro è la maledizione della classe bevitrice!”)
– Francis Scott Fitzgerald (1896-1940): premesso cheal primo che mi cita “Il grande Gatsby” con Di Caprio riferendosi al capolavoro di Fitzgerald auguro la maledizione di Montezuma, va detto che Fitzgerald è stato molto di più dello scrittore del romanzo sopracitato. Autore dalla prosa scorrevole ma profonda per tematiche e rimandi, Fitzgerald consacrò la sua vita a tre idoli pagani: l’alcol, la scrittura e la moglie Zelda. Con ogni probabilità quest’ultima fu la causa di gran parte dei suoi mali. Sempre alla ricerca del best-seller per poter mantenere il dispendioso stile di vita della moglie (a cui, va detto, Francis Scott si conformò ben presto), Fitzgerald si trovò in quella terribile situazione di assaggiare l’apice del successo con un romanzo, salvo poi vederlo sgretolare di volta in volta con le opere successive. Opere che, spesso, non avevano nulla da invidiare al “Grande Gatsby”. Anzi. Cantore dell’età del jazz, Fitzgerald era un grande amante del Gin Rickey, un cocktail discretamente old fashioned che si prepara miscelando ghiaccio, gin, succo di limone fresco e guarnendo il tutto con una fettina di lime. Fitzgerald lo faceva bere a molti personaggi dei suoi libri, in una sorta d’immedesimazione letterario-alcolica che, come vedremo, è comune a molti altri scrittori. Sebbene il Gin Rickey ricorra spesso nel “Grande Gatsby”, la lettura consigliata è “Tenera è la notte”, romanzo semi-autobiografico in cui Fitzgerald ripercorre gli anni europei passati assieme alla moglie Zelda. Tra cocktail, party, crolli nervosi e addii mai realmente consumati. I semi della decadenza fisica e psicologica di Fitzgerald erano già presenti in questo romanzo, che si configura come la fine dell’edonismo sfrenato post-bellico e il ritratto di un mondo in cui lo spazio per la spensieratezza e il cicaleggio si faceva via via minore. Anticipando i fantasmi di un dolore che pochi lettori vollero condividere. Non a caso il romanzo (bellissimo) fu un insuccesso clamoroso. Bevici su, vecchio Francis!
(“Prima tu prendi un drink, poi il drink ne prende un altro, e infine il drink prende te…”)
– Ernest Hemingway (1899-1961): dopo Fitzgerald non poteva che seguire Hemingway, e non soltanto per la contiguità temporale. Nonostante lo snobbasse apertamente, Hemingway era certamente debitore (invidioso?) dello stile di Fitzgerald. I primi consigli all’Hemingway aspirante scrittore, infatti, giunsero proprio dall’amico-nemico. Il quale, per un certo periodo, prese Hem sotto la sua ala protettrice. Salvo poi scaricarlo quando si accorse che il “pupillo” lo disprezzava pubblicamente (Hem derideva Fitzgerald per la sua incapacità di reggere l’alcol), nonché cercava (forse riuscendoci) di portarsi a letto la moglie. La bella e dannata Zelda di cui sopra. In ogni caso, Hemingway fece del suo rapporto con l’alcol il fil rouge di molti suoi romanzi, inserendo spesso e volentieri bevute clamorose, sbronze colossali, vino, birra e cocktail a fiumi. Che fosse un traslato del suo alcolismo più o meno latente o una descrizione sociologica di una società votata all’autodistruzione è una considerazione che non interessa più di tanto, e che lascio a commentatori ben più autorevoli di me. Resta che di tutti gli alcolici declinati da Hem, quello a cui il suo nome è maggiormente legato è certamente il Mojito: cocktail a base di rum bianco, ghiaccio, lime, menta e zucchero di canna inventato dal barman Angelo Martínez, gestore dello storico locale “La Bodeguita del Medio” che si trova a L’Avana. Grande amante di Cuba, Hemingway sosteneva che il Mojito de la Bodeguita fosse il migliore al mondo, e che nessuna imitazione successiva fosse minimamente avvicinabile al capolavoro di Martínez. Quindi, nonostante sia tra i suoi titoli famosi, separare il Mojito da “Il vecchio e il mare” sarebbe un delitto letterario. La lettura del più conosciuto romanzo di Hemingway è quindi consigliabile per rifarsi di un’estate che non arriva, sorseggiando un buon Mojito nella speranza di reggere l’alcol meglio di Fitzgerald. Hem doveva essere uno stronzo clamoroso, tuttavia la fine della sua esistenza si consumò tra crisi maniaco-depressive, elettroshock, paranoie e tentativi di suicidio. Un romanzo a cui pose fine lui stesso, con l’aiuto di un fucile e di alcune cartucce. Descansa en paz, “Papa” Hem.
(“Fai sempre da sobrio quello che dici di fare quando sei sbronzo. Imparerai a tenere chiusa la bocca!”)
– William Faulkner (1897-1962): a Hemingway, premio Nobel per la letteratura nel 1954, segue William Faulkner, che cinque anni prima aveva ottenuto il medesimo riconoscimento. Nonostante fosse già minato dall’alcolismo, Faulkner pronunciò, nel corso del discorso di ringraziamento per il Nobel, una dissertazione talmente profonda e lucida da essere tuttora ricordata come raro esempio di onestà intellettuale e morale. Lo scrittore del Mississippi fu uno dei più importanti narratori americani del ‘900, riuscendo a imporre uno stile tanto particolare quanto coinvolgente. Sovrapposizioni di voci narranti, tempi narrativi che mutano continuamente, non linearità nel plot, flusso di coscienza continuativo, sono questi gli stilemi di Falukner. Stilemi che, nel corso degli anni, hanno tanto appassionato i critici quanto lasciato interdetti i lettori, che spesso trovavano ostica la lettura dei suoi testi. Non a caso due tra i suoi capolavori (“Mentre morivo” e “L’urlo e il furore) furono dei clamorosi insuccessi editoriali. Rispetto agli autori citati in precedenza, l’autobiografismo di Faulkner è assai meno marcato, e ciò comporta che il suo cocktail preferito, ovvero il Mint Julep, sia citato assai raramente nelle sue opere. Il Mint Julep è un cocktail a base di sciroppo, foglie di menta e Bourbon, il whisky tipico del sud degli Stati Uniti. Da un uomo del Mississippi non ci si poteva aspettare altrimenti! Faulkner, infatti, mentre batteva alla macchina da scrivere teneva sempre accanto a sé una bottiglia di Bourbon, riconoscendo la difficoltà di scrivere senza poter ricorre a tale risorsa. Il consiglio di lettura per Faulkner è “Santuario”, ovvero il libro che gli diede il successo commerciale. Libro che Faulkner (con falsa modestia) non considerava di certo una delle sue opere migliori. Tuttavia, al netto delle autocritiche, il romanzo è molto interessante in quanto precursore del genere “pulp”. Declinato, però, secondo stilemi letterari che tradiscono la notevole bravura di Faulkner. Dalla dolcezza del Mint Julep all’affresco di camere di bordello e stupri commessi con una pannocchia il passo non è mai stato così breve. Era il 1931, fu uno scandalo e un successo clamoroso.
(“La civiltà comincia con la distillazione.”)
– John Fante (1909-1983): negli ultimi anni, grazie a una poderosa campagna di marketing e a un film d’innegabile bruttezza, lo scrittore italoamericano John Fante ha raccolto un successo che per gran parte della vita gli era stato negato. Nella parte finale della sua esistenza ci provò lo scrittore di cui parleremo nella prossima nota a riportarlo in auge, ma la “consacrazione” avvenne solo con l’inizio del secondo millennio. Il vecchio “Arturo Bandini” era, però, sotto terra da più di tre lustri. Tornando al nostro elenco di alcol e scrittori, parlare di “drink preferito” non sarebbe affatto corretto nel caso di John Fante: la sua vera passione, da buon emigrante italiano, è sempre stata il Vino. In particolare il chiaretto che gli ricordava la sua terra d’Abruzzo e che, nei suoi romanzi, faceva bere (un po’ come nella vita reale) a tutti i suoi personaggi. La “trilogia di Arturo Bandini”, infatti, è la descrizione di un’esistenza votata alla brama di vivere e di ottenere successo letterario, intervallata continuamente da grandi bevute di vino, sbronze moleste e situazioni esilaranti. Il tutto condito da un’amarezza di fondo capace di evocare una nostalgia romantica per quei “terribili” anni di apprendistato esistenziale. Dopo la trilogia, Hollywood diede a Fante soldi, ma non fama. Un po’ si vendette, un po’ venne cannibalizzato e, per quasi un ventennio, non scrisse più nulla di significativo. Poi, alla soglia dei settant’anni, ecco saltar fuori “La confraternita dell’uva”. Pubblicata nella sua prima edizione italiana con il titolo “La confraternita del Chianti”, nonostante il titolo originale fosse “The Brotherhood of the Grape”: titolo che non accenna nemmeno di striscio al vino più “commerciale” d’Italia. In ogni caso, “La confraternita dell’uva” è un bellissimo libro sull’avvicinarsi all’assenza. Un romanzo di un’ironia, un’amarezza e una profondità più unica che rara. Dialoghi spigliati, situazioni comiche, immagini che difficilmente usciranno dalla mente di un lettore. Se lo leggerete e lo apprezzerete, recuperate una bottiglia di chiaretto e andate in pellegrinaggio a Torricella Peligna (Chieti), paese natale del padre di Fante. Arturo Bandini ve ne sarà grato.
(“Dio Onnipotente, mi dispiace di essere diventato ateo, ma hai mai letto Nietzsche?”)
– Charles Bukowski (1920-1994): non me ne vogliano tutti gli hipster dell’universo o i ricercatori di letterature comparate di ‘sta ceppa, ma parlare del rapporto tra alcol e scrittori senza parlare del vecchio Chinaski non è proprio possibile. Un po’ perché è stato tra i primi autori contemporanei a sdoganare il ricorso continuo e continuativo all’alcol nella scrittura, un po’ perché è stata la prima vera “rockstar” della letteratura contemporanea. Là dove i reading poetici erano incontri tra vecchi tromboni interessati a contarsi le pulci sotto le ascelle, Bukowski si presentava con whisky, vodka e six pack di birra in lattina. Non sempre animava le cose, spesso sveniva praticamente sul palco, ma quando ce la faceva erano grandi letture. Ciò detto, il drink preferito del vecchio Hank (adoratore di Faulkner e Fante, abbastanza titubante su Hemingway, nonostante gli riconoscesse lo stile di essersi fatto saltare le cervella) era il Boilermaker: un drink composto da una pinta di birra e uno shot di whisky da posizionare al suo interno capovolto. In Italia si chiama anche “sottomarino”, ed è un cocktail tipico dei pub inglesi. A livello di letture consiglierei il Bukowski poeta, sempre troppo snobbato dai critici, anche se vorrei venisse riscoperto uno dei suoi ultimi romanzi: “Hollywood, Hollywood!”, ricostruzione autobiografica del periodo passato a scrivere la sceneggiatura per il film “Barfly” di Barbet Schroeder, interpretato da Mickey Rourke e Faye Dunaway. Il romanzo non è tra le sue prove migliori, tuttavia è decisamente interessante per certe scene davvero spassose e per la descrizione del processo di lavorazione a un film e della follia (di attori, registi e produttori) che si cela dietro la facciata delle produzioni hollywoodiane. Dato che quel mondo non faceva per lui, Bukowski poteva fare soltanto tre cose con l’esperienza accumulata: riderci su, sbronzarsi con i soldi ricevuti, scriverci un romanzo. Inutile dire che le fece tutte e tre.
(“La mia anima strafogata di birra è più triste di tutti gli alberi di Natale morti del mondo.”)
– Hunter S. Thompson (1937-2005): dulcis in fundo, eccoci giunti all’ultimo personaggio di questo nostro breve elenco, ovvero l’autore di “Paura e disgusto a Las Vegas” e delle “Cronache del Rum” (altri due libri cannibalizzati, più o meno bene, da Hollywood): H. S. Thompson, anche noto come Raoul Duke o Dr. Gonzo. Non mi dilungherò molto sulla biografia di Thompson, limitandomi a suggerire la lettura dei suoi scritti giornalistici (non facili da reperire, ma interessantissimi) e proponendo la tabella di una sua giornata tipo redatta da E. Jean Carroll, uno dei suoi massimi biografi: h 15 – sveglia / h 15:05 – Chivas Regal, giornali del mattino, sigaretta Dunhill / h 15:45 – cocaina / h 15:50 – altro bicchiere di Chivas, Dunhill / h 16:05 – prima tazza di caffè, Dunhill / h 16:15 – cocaina / h 16:16 – succo d’arancia, Dunhill / h 16:30 – cocaina / h 16:54 – cocaina / h 17:05 – cocaina / h 17:11 – caffè e sigarette Dunhill / h 17:30 – aggiungere ghiaccio al Chivas / h 17:45 – cocaina / h 18 – erba / h 19:05 – pranzo: due margaritas, una Heineken, due cheeseburger, due piatti di patate fritte, un piatto di pomodori, una “taco sald”, due piatti di anelli di cipolla, una “coleslaw” (insalata di cavolo cappuccio), torta di carote, gelato, “bean fritter”, sigarette Dunhill, un’altra Heineken, cocaina e, per il ritorno a casa, un bicchiere di ghiaccio tritato con tre o quattro shot di Chivas / h 21 – cocaina / h 22 – si cala un acido / h 23 – Chartreuse (un tipo di liquore), cocaina, erba / h 23:30 – cocaina / h 24 – Hunter è pronto per scrivere / h 00:05 fino alle 6 – Chartreuse, cocaina, erba, Chivas, caffè, Heineken, sigarette Clove, pompelmi, sigarette Dunhill, succo d’arancia, gin / h 6 (nell’idromassaggio) champagne, gelati, fettuccine Alfredo / h 8 – sonniferi Halcion / h 8:20 – sonno. Non credo serva aggiungere molto altro. Quanto meno per ricorsività, direi che il drink preferito da H. S. Thompson è stato il Chivas Regal. Con qualche piccola scappatella extraconiugale per il Wild Turkey. Il Dr. Gonzo era deciso su tutto, ma non sul dubbio amletico tra Scotch e Bourbon!
(“Sono un idiota, io sono un pazzo, lo so…ma sono stato una buona lettura, giusto?”)
Con H. S. Thompson questo nostro elenco giunge al termine. Il rapporto tra alcol e scrittura è sempre stato decisamente prolifico, e vi sarebbero molti altri scrittori (con annessi drink) da leggere e citare. L’estate sta finendo. L’estate è già finita. Solo i luoghi comuni non finiscono mai. E hanno cittadinanza attiva nei mezzi d’informazione che, spesso, tediano in maniera inutile e non richiesta le nostre giornate con banalità spicciole. Anestetizzare il tutto con un buon bicchiere è sempre stata una buona soluzione. Leggere un bel libro lo è altrettanto.
E forse di più.
Anzi, sicuramente di più.
Buona (tautologica) fuga da un’estate in fuga.
Ovunque essa sia.
Andrea Gratton