LA STORIA DI STEVEN BRADBURY, IL MODERNO BARRY LYNDON
Esiste una storia, nella galassia dell’epica sportiva, che trascende qualsiasi tempo. Esiste una storia, a metà tra favola e farsa, che non è mai troppo tardi per raccontare. Perché è molto più di un racconto sportivo, della cronaca di un evento, della biografia di un atleta, perché fonde al suo interno decontestualizzazione geografica, velleità agonistiche, una massiccia dose di sfiga e un finale holliwoodiano che nemmeno il miglior Michael Bay avrebbe azzardato. Parliamo della storia di Steven Bradbury, ossigenato giovanottone australiano qui sotto ritratto senza naso.
Steven Bradbury nasce quarant’anni fa nella ridente cittadina di Camden, sobborgo alle porte della più nota Sidney, Australia. Il primo indizio sulla sua predestinazione nel ruolo di demotivatore del genere umano lo otteniamo già da questo dato biografico/geografico/antropologico. Perché il Nostro, incapace di accettare il destino di ogni ragazzino australiano fatto di fango, botte e palle ovali, intravede in uno sport praticamente sconosciuto al di fuori dell’arco alpino la possibilità di riscatto per ogni mediocre del globo: lo short track.
Per quei pochissimi che dovessero ignorare cosa fosse, diremo che lo short track è una variante del pattinaggio su ghiaccio caratterizzato dalla velocità, in cui un gruppo di pattinatori dà battaglia su una breve pista al coperto di 111 m. Come, dove e quando il Nostro abbia trovato in una terra di calde coste australi e immense aree desertiche una corta pista di ghiaccio è una domanda a cui il Sottoscritto non è stato in grado di trovar risposta. Ma la scommessa di Steven sembra almeno all’inizio vinta. Alle Olimpiadi di Lillehammer del 1994 arriva a vincere un bronzo in staffetta nei 5000m e un argento e un bronzo nei Mondiali del 1993 e del 1994. Fin qui la favola sembra destinata al più dolce dei lieti fine, con un implicito messaggio a cui ognuno di noi più o meno segretamente spera sempre di poter veder realizzato: nella vita puoi diventare davvero ciò che vuoi, fosse il consigliere comunale a Buccinasco, un produttore di biglietti da visita economici, un campione di nuoto in Nepal o un grande campione di pattinaggio su ghiaccio in Australia. Ma la trionfale cavalcata verso la gloria del nostro Steven subisce una drammatica battuta d’arresto: nel 1994 a Montreal, durante la gara dei 1500m, riporta una profonda ferita causata dalla lama di un pattino di Mirko Vuillermin , con il quale si era scontrato accidentalmente. L’arteria femorale viene tagliata, perde 4 litri di sangue e occorrono 111 punti di sutura e un anno e mezzo di riabilitazione per rimetterlo in piedi. Ma come se non bastasse, nel 2000 durante un allenamento subisce la frattura dell’osso del collo. Minato nella sua condizione fisica, il suo talento non riesce più ad esprimersi ad alti livelli. E Steven Bradbury decide di dare l’addio alle gare, scegliendo come ultima prestigiosa passerella d’addio le Olimpiadi di Salt Lake City del 2002. Subito fuori nei 1500m, dopo tante mazzate (e non metaforiche) intravede un fugace sorriso da parte della Fortuna, che gli concede di superare i quarti di finale dei 100m dopo una gara passata nelle retrovie a causa della squalifica di Marc Gagnon. In una sorta di contrappasso sul ghiaccio, a Steven è concessa un’ultima possibilità di salutare quel mondo amato: come nella gara precedente, anche in semifinale rimane nelle retrovie per tutta la durata della gara a godersi le gesta dei suoi quattro avversari in lotta da un punto di vista assolutamente privilegiato. Probabile che pensasse a quali souvenir portare in patria dalla capitale dei Mormoni quando di fronte a lui, nell’ultima curva, Turcotte trascina a terra Li Jiajun: Steven Bradbury, in quello che è ormai un conclamato scandalo morale, si ritrova secondo……..Steven Bradbury accede alla finale olimpica. Il sogno di ogni atleta, partecipare alla più prestigiosa competizione della propria disciplina, è realizzato: il biondo ragazzotto australiano gareggerà per l’oro alle Olimpiadi. Quasi. Perché Steven Bradbury ha ampiamente dimostrato nelle gare precedenti di non essere all’altezza dei suoi avversari. Ma certamente di possedere un fondoschiena ben accessoriato. E come spesso accade, gli optional fanno la differenza. Nella finale a cinque, all’ultimo giro, all’ultima curva, Steven è nettamente ultimo. Staccato, si prepara a salutare il suo pubblico nel modo migliore che potesse sperare, nella finale di un’Olimpiade. Perché alcuni valori sono imprescindibili, nel mondo contemporaneo: la meritocrazia, il frutto di un duro lavoro, essere ripagati dei sacrifici fatti nel raggiungere un importante obiettivo che ci si è dati. Questo fa girare il mondo, questo spinge le persone a dare il meglio. Certo. Lui è stato sfortunato, il talento non è stato sufficiente, la sua carriera è andata cosi.
«Non ero certamente il più veloce, ma non penso di aver vinto la medaglia col minuto e mezzo della gara. L’ho vinta dopo un decennio di calvario»
Non è merito di Photoshop. Quello è Steven Bradbury, e quella è la sua medaglia d’oro olimpica conquistata in quell’ultima curva, quando i suoi avversari davanti si sono trascinati a terra l’uno con l’altra: con un quarto di giro di distacco lui ha tagliato il traguardo per primo. Lungi da me qualsiasi velleità di giudizio, qualsiasi commento che vada aldilà di quanto questa cronaca già da sé induca. E’ una favola sportiva che fa sorridere, che a molti farà bene e riempirà di felicità. Io credo che tutto questo si racchiuda in queste poche righe.
“Chi disse: “Preferisco avere fortuna che talento” percepì l’essenza della vita. La gente ha paura di ammettere quanto conti la fortuna nella vita. Terrorizza pensare che sia così fuori controllo. A volte in una partita la palla colpisce il nastro e per un attimo può andare oltre o tornare indietro. Con un po’ di fortuna va oltre e allora si vince. Oppure no e allora si perde.”
(Matchpoint)
Davide Zago