“Il sorprendentemente deludente secondo album de I Cani”
E’ oggettivamente complicato riflettere sulla musica dei nostri giorni. Tanto è stato sentito, tanto è stato sperimentato e tanto è stato prodotto. Anche tanta merda. Ciò che rende il tutto divertente è che solitamente è proprio quest’ultima a passare a nastro in radio, in filodiffusione al supermercato, nei sedicenti programmi musicali in tv, nei locali, per strada (solitamente sparata a palla dal cellulare del tamarro di turno), facendoci venire voglia di chiuderci le dita a contrasto nella porta blindata di casa.
Entrando nello specifico, l’hipsterismo forzato de I Cani a me non va giù; anche se con “Il sorprendente album d’esordio de I Cani” mi avevano ingannata, lasciandomi sperare che dopo un primo disco acerbo ma con un buon potenziale, il secondo lavoro sarebbe stato di certo interessante. Poi ho ascoltato “Glamour”. Ed ho capito che non volendo hanno avuto ragione a presentarsi autoironicamente come “l’ennesimo gruppo pop romano”. Dopo un’intro inspiegabilmente in stile Baustelle (che, devo ammettere, non è da buttare), troviamo un pezzo che, oltre a nominare Vera Nabokov in maniera decisamente (e spero volutamente) limitante, apre la grande saga del tema dell’occupazione. Sì perché se il primo disco era concentrato sull’hipster depresso che va al liceo, nel secondo l’hipster è sorpreso e disorientato da questa realtà per lui ai limiti del fantascientifico: il mondo del lavoro.
Tracce tipo “Come Vera Nabokov”, “Corso Trieste”, ovviamente “Storia di un impiegato”, ma anche (in misura minore) “FBYC” probabilmente dovrebbero farci sentire in colpa perché Niccolò Contessa è diventato grande e la mattina si deve svegliare presto mentre noi… Pure.
Se ne discosta apparentemente “Storia di un artista”, inspiegabile biografia di Piero Manzoni, preceduta da due pezzi strumentali piacevoli, ma un po’ insignificanti. Ora, non che Manzoni non sia degno di essere ricordato, anzi (personalmente l’opera che preferisco è “Socle du monde”). Mi pare però di leggerci una sottile critica a chi come lui, essendo facoltoso di famiglia, ha potuto permettersi di vivere inscatolando “merda”.
Forse il pezzo che veramente si distacca un po’ dal dramma e segue più la linea della cinica assoluta rassegnazione è “San Lorenzo” che non ci concede il romantico rito dei desideri nella notte delle stelle cadenti. “Tutto l’universo nasce e muore di continuo e se ne frega dei progetti e degli amori e dei miei fallimenti: quindi andare a chiedere favori alle stelle cadenti non è tanto di cattivo gusto quanto arrogante.” Un po’ troppo sullo stile di Bianconi, ma non è la canzone peggiore del disco.
Infine il solito, banale quadro sentimentale avvolto dall’insoddisfazione. Già visto, già sentito. Perfettamente riassumibile con il solito adagio del “non è colpa tua, sono io il problema”. “Non c’è niente di twee” e “Lexotan” ci dipingono questi amori dannati ma inconsistenti, sopravvalutati e patetici. Ancora.
In definitiva “Glamour” è un album deludente alla luce delle prospettive ben più intriganti create dal primo lavoro della band. Resta comunque un disco da ascoltare, senza troppe aspettative.