Tutte le ansie della laurea triennale
Freddo nebbia e trenord. Validi motivi che spingerebbero una persona ragionevole a starsene a casa, a lasciar perdere tutto, a farsi trasportare dal flusso senza scopo della vita avvolto dalle coperte. Ma io non sono una persona ragionevole. Nessuno di noi universitari, specie pendolari, lo è. E poi oggi è un giorno speciale: un’amica sta per tagliare il traguardo triennale in lingue, alla Statale di Milano.
“Dovrei discutere tra le 12 e 12.30”
“Nessun problema, tanto sarò lì in mattinata per studiare un po’”
Evvai, posso evitare i vagoni ricolmi di perduta gente delle 7.13 e optare per un morigerato 8.02. Nessun affanno quindi. Giungo in stazione puntuale e in lontananza scorgo sul monitor una cifra dall’aria familiare segnata da un apostrofo: 10 minuti di ritardo.
“Ah, è bello tornare a casa” penso tra me e me.
Il treno arriva e fa subito una bella impressione. Vagoni recenti, ancora in buone condizioni. Peccato che non ci sia un posto libero nemmeno in mezzo al corridoio e così la mia precedente speranza viene pugnalata e amen.
“Sarebbe stato bello rimanere a casa” penso tra me e me. Ma non è un grosso problema, è una situazione vissuta tante volte, e poi oggi è un’occasione speciale. La Milano che mi attende sarà forse cambiata, si sarà scrollata un po’ del suo vago grigiore austero frammentato da immagini patinate di un’umanità esteticamente e moralmente perfetta? Mah. Ogni buona metropoli insegna a non avere grosse aspettative, specie sulle creature viventi. E il clima invernale non aiuta. Poco importa comunque. Nonostante tutto, so che prima o poi sarò preso dalla nostalgia. Nostalgia di cosa poi? Forse della linea gialla, tratto Centrale – Missori? In effetti un po’, anche senza il barbone violinista.
Uscito dai sotterranei, mi dirigo verso S. Alessandro, sede del dipartimento di Lingue. A suo tempo seguii alcuni corsi di letteratura in queste aule, solo in rarissimi casi stando seduto al banco. Cosa mai poteva spingere delle persone ad accasciarsi a terra pur di sentire le parole di un Baudelaire, di un Gogol o di un Frost? Semplice autolesionismo. Come del resto l’idea di accostare “progressivo inglese” e “studenti russofoni” in un lavoro di tesi. Ma caso vuole che sia proprio il titolo del lavoro della mia suddetta amica. Io e la sua famiglia siamo ignoranti sull’argomento ma abbastanza intelligenti da capire che probabilmente non è il caso di puntualizzare troppo. C’è una leggerissima tensione nell’aria. Vedo che i suoi genitori vorrebbero immortalare ogni momento, mentre lei e gli altri laureandi stanno silenziosamente mettendo alla prova la propria resistenza allo stress. “Madonna che ansia!” e “Cazzo me ne frega adesso di dov’è quella là!” sono ottime valvole di sfogo. Anche “Mamma smettila di fare foto a qualunque cosa respiri!” non è male.
Giunge il momento dei 10/15 minuti di discussione. Un’eternità quando si è appena trovato un relatore. Uno sputo, appena prima di parlare. In una prima parte dice cose in inglese e sembra dirle piuttosto bene, a giudicare dal disinteresse dei professori. Tutto fila liscio. Noto che in confronto alla mia laurea la commissione ha più gusto per la suspense. Infatti il voto lo comunicheranno per mail, si vede che la tensione non era abbastanza per loro. L’importante è aver superato il tunnel. Ah no aspetta, ce n’è un altro che si chiama magistrale, ma può attendere. Per ora godiamoci un po’ di aria fresca.
“L’unica incertezza è la lode” dico alla mia amica, visibilmente emozionata, tutta presa a scusarsi per la maleducazione dovuta ai suoi precedenti deliri d’agitazione. Maleducazione peraltro che non ho colto, ma si sa, i pazzi vanno assecondati, e quindi accetto le sue scuse.
E’ buffo pensare a quante energie e speranze investiamo in quei 10/15 minuti. Più preoccupante pensare a quelle dissipate in alcolici nelle ore successive. Ci sentiamo presi da una giostra di malsano ottimismo, nella convinzione di poter passeggiare nel mondo brandendo i nostri diplomi con la stessa facilità con cui ora stiamo passeggiando in piazza Duomo, nella disperata ricerca di un indigeno disposto a farci un set fotografico senza rifilarci braccialetti o elefantini portafortuna.
Tornando a casa, cullato dai binari, mi sovvien l’eterno sbattimento e le morte stagioni di appelli e la presente e viva e il suon di lei, della triennale. Una rassegna di ansie, frustrazioni, burocrazia, sonnolenze e mal di testa, le giuste punizioni per un destino liceale. Passata troppo in fretta, purtroppo. Ecco non saprei dire cosa non va in noi universitari. Al culmine della laurea, volendo storpiare una frase di H. S. Thompson, siamo uomini e donne in marcia abbastanza malati da avere fiducia in tutto.
P.S. Dopo due giorni la mia amica mi conferma il voto: 110 e lode. Ultime tensioni sciolte. Il giro di giostra continua.