Le Oltre favole

Una storia sulla vanità e sulla fine del mondo

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La vecchia biblioteca del centro storico di Casalto era stata ristrutturata da poco e gli adolescenti della città ne avevano fatto il loro luogo di ritrovo. Epurando la costanza, la morbosa curiosità e l’isolamento dal loro concetto di letterato, erano riusciti a modellare un personalissimo ideale di intellettuale che esaltava la forma a dispetto dei contenuti. Nessuno capì mai quale fu la sorgente di questa new wave, ma ben presto i ragazzi di Casalto mutarono il loro abbigliamento ispirandosi non più alle copertine dei dischi o ai simulacri della televisione, ma agli autori dei grandi classici dell’ottocento e del novecento. In città era diventato piuttosto comune trovarsi di fronte un pubescente Sartre dissertare animatamente con un Thomas Mann senza baffi, o notare una giovane Annah Arendt zampettare leggiadra verso il chiostro della biblioteca; ma questa nuova reinassance, che aveva ridotto per la prima volta Wagner al formato MP3, era diventata motivo di grande soddisfazione per gli amministratori comunali e per i genitori. I primi non perdevano occasione di rivendicare la paternità del cambiamento; i secondi trattenevano a stento le lacrime di fronte ai figli, che accettavano entusiasti i loro inviti ad andare a teatro quando fino a poco tempo prima li avrebbero mandati a fare in culo.

Nell’insieme la recita era inscenata molto bene, e qualsiasi straniero si fosse imbattuto per puro caso in quella cittadina sarebbe rimasto ammaliato dal fervore pacato di quelle menti.

Per dovere di cronaca è necessario spezzare una lancia a favore dei nostri sani esemplari di radical chic, che tutto sommato, guidati da questo passeggero culto dell’arte, cominciarono ad occupare il loro tempo libero non più con effimeri passatempi, ma con solerti tentativi di ridestare dal torpore i loro ottusi intelletti.

Ci fu chi si approcciò alla lettura dei romanzi, con una spiccata predilezione per i russi, chi iniziò a dipingere, chi a suonare il violino. Qualcuno si cimentò nella drammaturgia, scrivendo tragedie per poi mettere in piedi delle rappresentazioni nei teatri-off della città. La cosa più interessante però, fu la rigida selezione degli artisti che vennero assunti a modello da emulare. Proust, Dostoevsky, Tolstoj, Stendhal, Joyce, Matisse, Renoir, Cechov -solo per fare alcuni nomi- erano unanimemente accolti tra gli astri splendenti del firmamento artistico di Casalto; Dante e Leopardi invece, venivano considerati vetusti, mentre Pirandello e Calvino vanitosi e superficiali; tutti quanti comunque troppo italiani.

Sta di fatto che la biblioteca del centro storico, grazie a questo fatuo clima rinascimentale, si avvantaggiò di un rinnovamento strutturale, e del brulichio incessante di eleganti adolescenti orfani del doposcuola. Ad essere sinceri le stanze della biblioteca erano mezze vuote; il vero fulcro era il chiostro, servito da un nuovo e scintillante bar che aveva ottenuto dall’amministrazione comunale la servitù per colmare di tavoli gran parte dell’ambiente. Qui i giovani putti interpretavano la loro temporanea identificazione giovanile, discorrendo di libri che non avevano letto, di arie che non avevano ascoltato, di dipinti che non avevano capito.

Mentre Nelle Vesti si contendeva l’aria con il fumo delle sigarette, seduto a un tavolino, Michelangelo seguiva distrattamente Leonardo descrivergli la sua nuova ispirazione per un dipinto.

«Vedi» lo interruppe «la differenza tra me e te è che tu hai velleità artistiche; io ho talento. Un talento sprecato ma pur sempre un talento. Sentirmi dire dagli altri che se volessi potrei fare quello, che se volessi potrei fare quell’altro, per me è più gratificante di qualsiasi riconoscimento ufficiale, che ne so un premio nobel, perché non comporta né fatica né critiche»

«Dici così solo perché gli idioti che frequenti ti considerano geniale» rispose Leonardo, offeso dal disinteresse di Michelangelo per le sue opere, «ma alla fine tu non hai mai dimostrato un cazzo, e se è per quello anche io posso dire di avere talento.»

«No, tu hai dei quadri di merda; io ho talento.»

Michelangelo non aveva talento. Era un bel ragazzotto alto e bruno dotato di un eccezionale parlantina e di una ancor più eccezionale intelligenza sociale. Godeva di grande stima presso tutti, sia per la sua capacità di rendere qualsiasi aneddoto interessante, spruzzando qua e là qualche citazione improbabile, sia per la sua leadership naturale. Il suo magnetismo era tanto forte quanto la sua insensibilità, che ne aveva fatto una figura da ammirare e da temere al tempo stesso, ed era noto per la sua capacità di umiliare pubblicamente chiunque provasse a minacciare il suo ruolo di capobranco dominante. Circondato dai soliti lacchè, applicava il suo spiccato polimorfismo secondo il contesto e le persone che lo circondavano. Fu uno dei primi ad appoggiare la moda intellettualoide, eliminando sin da principio coloro che da sempre erano stati, onestamente ed appassionatamente, studiosi meticolosi. Quest’ultimi, come è ovvio, relegati per anni dentro il recinto dell’impopolarità, come ridicoli untori affetti dal morbo dell’istruzione, credettero ingenuamente che fosse arrivato il loro momento, e videro in questa nuova tendenza la strada tanto agognata per realizzare il loro riscatto sociale. Convinti di essere accettati dai nuovi proseliti come sacerdoti detentori della cultura e delle arti, vennero invece spazzati via da Michelangelo, che comprese prima di tutti, con la lungimiranza tipica degli stronzi, il pericolo che si annidava in seno a quei secchioni affamati di riconoscimento. Fu l’unico a intuire infatti, che questi avrebbero introdotto la scrupolosità dell’analisi, la tribolazione della pratica, la solerzia della lettura approfondita e, di conseguenza, la noia, nella nuova corrente giovanile. Ma il punto di forza di questa recente vocazione era proprio la dozzinalità, la superficialità, l’accessibilità. Michelangelo usò la sua influenza per screditare fin da subito quelli che lui chiamava «i cospiratori accademici», colpevoli di ridurre la letteratura, l’arte e la musica a mere scienze speculative da misurare e analizzare. «I vostri numeri, le vostre date, le vostre comparazioni e i vostri contesti storici: tutte stronzate!» aveva urlato una volta a Raimondo Brandorsi, aspirante medievalista suo compagno di classe e noto cospiratore accademico.

«Ma…ma...historia magistra vitae est» aveva provato a difendersi il paffuto secchione.

«Noi non abbiamo maestri» tutti nel chiostro attendevano in silenzio il colpo di grazia, «noi abbiamo le nostre emozioni, il nostro ardore, il nostro talento. Tu, hai solo la tua verginità».

Questo era più o meno lo stile delle sue sentenze: plurale maiestatis e ferita narcisistica.

Zaccaria Sigismondi fu l’ultimo cospiratore a cadere, e l’unico a dargli del filo da torcere. Era un ragazzo carino ed educato, eccellente pittore e assiduo divoratore di romanzi veristi. Aveva aperto da poco un’associazione artistica per iniziare alle correnti pittoriche del novecento tutti i nuovi aspiranti letterati, e con la sua innegabile capacità e affabilità aveva conquistato la simpatia dei frequentatori della biblioteca. Fidanzato da anni non aveva nulla che potesse mancare rispetto a Michelangelo stesso, se non un ego incommensurabile. Quella volta la leadership del giovane tiranno fu seriamente messa in pericolo; inattaccabile e competente, Zaccaria lo stava lentamente detronizzando per sostituirlo con una oligarchia del sapere di stampo ellenico. Ma Michelangelo riuscì a portarsi a letto la sua fidanzata documentando la cosa, e quando, finalmente, i due corifei si scontrarono nell’atrio della biblioteca davanti a tutti, questi estrasse la calda lama dalla sua fondina.

«La tua visione dell’artista è estremamente semplicistica, non fai altro che astrarre dalla figura ciò che ti interessa -la fama, il fascino, le frequentazioni raffinate- senza considerare tutta la fatica e il sacrificio che si nascondono dietro il parto di un’opera, di qualsiasi campo si tratti.» cercò di concludere Zaccaria.

«Combattere la noia, il lavoro e la fatica è il vero compito di un artista,» disse Michelangelo sventolando una Polaroid dove appariva in atteggiamenti intimi con la fidanzata dell’avversario «Ma forse tutta la tua animosità nei miei confronti è dovuta a questo.»

Il giovane pittore scoppiò in lacrime travolto da una crisi isterica, e fuggì disperatamente tra gli archi rampanti, le mani a coprirsi il volto, verso un lungo esilio volontario. Quella fu la consacrazione. Michelangelo aveva eliminato tutti i concorrenti, navigando felice verso il rafforzamento della sua posizione. Da quel momento in poi fu lui la guida dei giovani di Casalto, l’intellettuale tra gli intellettuali, l’artista tra gli artisti. Artista riconosciuto, scalcinato, folle e geniale a detta di tutti, nonostante non avesse dimostrato in nessun campo la benché minima attitudine, se non una spiccata dote, di matrice d’annunziana, di far della sua vita arte, e di qulla degli altri tragedia.

Ma l’apice della gloria Michelangelo l’aveva raggiunto risolvendo brillantemente la questione De Sade.

La questione De Sade era sorta qualche tempo dopo la dipartita di Zaccaria, quando la moda intellettualoide cominciava ad avere i primi plausi dalla comunità. Capitò che Maria Rosa, la responsabile della sezione Letteratura Americana della Biblioteca, trovasse un paio di profilattici usati, spiaccicati sulle piastrelle di uno dei bagni dell’edificio. Lo scandalo fu grande. Maria Rosa denunciò immediatamente il fattaccio alle autorità, dopodiché lo shock la portò ad un lungo periodo di esaurimento nervoso e per un po’ di tempo di lei non si seppe più nulla. Nonostante gli sforzi da parte dell’amministrazione comunale per insabbiare la faccenda, poche ore dopo Casalto fu penetrata dalla notizia.

I giornali locali cominciarono a costruire un caso mediatico sull’accaduto, e in città si formarono due scuole di pensiero: da un lato i vecchi intellettuali di sinistra difendevano a spada tratta la focosa ribellione dei ragazzi, che avevano usato il sesso e l’amore per attaccare i poteri costituiti; dall’altro i vecchi intellettuali di destra li accusavano di aver intrapreso la strada della perdizione traviati da letture irresponsabili. Qualche mese prima entrambe le parti avevano assunto posizioni opposte riguardo un certo caso che vedeva un alto funzionario del governo coinvolto in uno scandalo di prostituzione. Ma nessuno se ne ricordò.

Alfredo Leonbattaglia, procuratore generale del Tribunale cittadino, non poté esimersi dall’aprire un’indagine. Era un uomo molto vecchio tenuto in vita da un’altissima caratura morale, che lo aveva reso celebre in tutto il paese e che gli aveva conferito la fama di custode dei valori di tutta la comunità. Forte di tutto questo aveva finito per confondere i confini tra legge terrena e legge divina, costruendosi un’idea di giustizia legittimata da Dio e applicata dalla sua persona; spesso, a dir la verità, nella sua testa questi due coincidevano. Durante le sue ricerche affiorarono particolari agghiaccianti: sotto la veste candida e colta che indossavano, i ragazzi della città erano protagonisti di un sottobosco di promiscuità e libertinaggio che andava ben oltre i rapporti sessuali nei bagni, spingendosi addirittura verso menage a trois e rapporti orali non protetti. Tutto questo all’interno della biblioteca, sacro luogo di cultura commutato a vera e propria fortezza ospite dei più dissipati baccanali. La situazione era inaccettabile. Il processo che si aprì fu uno dei più seguiti e celeberrimi di tutta la storia di Casalto, ed ebbe una risonanza tale da spingersi ben oltre i confini nazionali. La pubblica accusa, guidata da Leonbattaglia chiedeva la chiusura della biblioteca, la cui ristrutturazione era stata responsabile dei funesti fatti accaduti, per ristabilire così l’antico ordine morale e recuperare il precedente equilibrio psicosessuale ormai perduto tra le nuove generazioni. Nei ragazzi sorse il grande spirito della contestazione, e quando venne il momento di nominare un portavoce che difendesse a spada tratta la biblioteca e le loro libertà, la scelta ricadde inevitabilmente sul carismatico Michelangelo; l’unico, per essere precisi, che si era proposto.

Il giorno del processo, l’aula del tribunale era gremita di giornalisti, televisioni, cittadini e stranieri richiamati dall’evento. I giovani formavano un gruppo omogeneo sulla destra della stanza: intabarrati in eleganti cappotti dal taglio classico; Tocqueville sottobraccio; pipe fumanti di tabacco delle Indie. Sempre sulla destra ma di fronte alla grande cattedra del giudice, stava Michelangelo sprezzante, tronfio della responsabilità che si era assunto. Una giacca blu con toppe marroni ai gomiti lo vestivano nella parte superiore; pantaloni scamosciati e polacchine in quella inferiore. Teneva aperto tra le mani un volume del codice Rocco zeppo di sottolineature e appunti, dividendo il suo sguardo tra quest’ultimo e l’ingobbito Leonbattaglia, il quale, coperto dalla tunica nera nel fronte opposto dell’aula, ordinava meticolosamente le annotazioni per l’inquisitoria da sostenere a breve. Il cicalio indistinto dell’ambiente venne interrotto all’apparire del giudice, che sedutosi al suo posto invocò il silenzio e introdusse le parti.

«Siamo qui riuniti» esordì con la sua voce baritonale, perfettamente calzante alla sua corporatura gigantesca, «per risolvere una controversia che va ben oltre il suo significato particolare. Il caso specifico rappresenta tutto ciò che la nostra società disprezza e rifiuta: la perdizione sessuale annidata in seno ai giovani della nostra comunità. Se sarà comprovata l’effettiva condotta moralmente deprecabile da parte degli imputati, alla biblioteca saranno apposti i sigilli dello stato. La parola all’accusa.»

Prima di proseguire nel racconto, credo sia necessario fare alcune precisazioni sul sistema processuale di Casalto.

La piccola provincia, per il suo retaggio storico culturale, e per essere situata in una terra di confine, godeva di una notevole indipendenza rispetto alle altre città dello stato, e una delle materie delega era proprio quella processuale. L’amministrazione aveva ideato un sistema che permetteva una discreta efficienza e velocità nella risoluzione delle controversie . Sia per quanto riguardava il ramo penale, sia per quello civile, il contenzioso si svolgeva interamente in un unica udienza, dove le due parti portavano le prove a loro favore e la retorica la faceva da padrone. Il giudice aveva il solo compito di mantenere un certo ordine nello svolgersi delle operazioni, di garantire che le due arringhe non superassero i cinque minuti massimi consentiti, e di stabilire le pene principali e accessorie in caso di colpevolezza di una delle due parti. La decisione finale era affidata ad un applausometro, che registrava in decibel l’approvazione, da parte del pubblico in aula, dei due avversari. Questo curioso procedimento, approvato da un referendum popolare, aveva permesso di cancellare codice civile, codice penale e leggi complementari, restituendo alla volontà popolare il potere giudiziario. Fu allora che tutti gli avvocati della città vennero cacciati. Ogni ventisette novembre, a Casalto, si festeggia il grande esodo degli avvocati.

Il procuratore Leonbattaglia si alzò dalla sedia con la consueta calma, accompagnato da qualche fischio di disapprovazione proveniente dalla destra dell’aula. Indossati gli occhialini tondi che lo contraddistinguevano, cominciò la sua inquisitoria.

«Signori e signore,» esordì «quando venni a conoscenza della famosa questione dei contraccettivi, decisi all’istante di aprire un’inchiesta. Guidato dal mio innato senso di equanimità, e dalla buona fede che per costituzione naturale ripongo verso il prossimo, scelsi di condurre le mie ricerche affinché i responsabili del reato contro la morale si svelassero alla comunità; per punire in codesto modo il singolo colpevole e non dover vedere ancora una volta, con i miei consumati occhi di vecchio magistrato, i molti pagare per i pochi. Ma l’arma del delitto si è rivelata, beffardamente, più performante del previsto. Gli investigatori privati che ho assoldato sono risultati molto capaci non solo nel camuffarsi da giovani e gagliardi bohémien nostrani, ma anche nel guadagnare appieno la fiducia degli adolescenti di Casalto, documentando e archiviando testimonianze schiaccianti. Uno di loro, purtroppo, titillato nell’animo dalle ragazze discinte che lo circondavano, ha ceduto alle lusinghe della fresca carne sprofondando in un abisso di perdizione e immoralità. Tutto questo mentre svolgeva il suo compito di agente sotto copertura. Per questo motivo, ve l’assicuro, è già stato punito. Ma questo mio fidato ex-collaboratore, per il quale fino a poco tempo fa avrei messo senza alcun tema la mia ossea mano nel fuoco, e del quale, cari signori, non sentirete parlare mai più, mi ha lasciato, nei suoi ultimi istanti di vita, mentre i maiali cominciavano ad assaggiare le sue cosce, un’importantissima lezione: chiunque, anche il più nobile e indefettibile modello della nostra comunità, può essere rapito dalle terrene tentazioni. Ma proseguiamo con i fatti.

Le registrazioni che mi sono pervenute dimostrano senza alcun dubbio la totale perdita di una consapevole identità sessuale e di un sano equilibrio psico-emozionale da parte di tutti i frequentatori della biblioteca. Ricercando il legittimo proprietario dei profilattici trovati nel bagno, ho scoperto a malincuore un vero e proprio radicamento della cultura del libertinaggio tra i figli della nostra comunità. I quali non solo si sono macchiati del peccato in luogo pubblico, ma hanno mancato di rispetto alle loro pudenda addirittura nel privato, tra le rassicuranti mura di casa, dandoci dentro, e sperimentando il sesso tantrico in ancillari incontri orgiastici. Magari voi eravate in cucina signore, si in cucina, a preparare qualche manicaretto per la vostra figlioletta appena pubescente, che deve ancora crescere, che gioca ancora con le bambole; ma lei era nell’altra stanza, vestita da carota mentre scappava da due buffi e pelosi conigli giganti. Dentro i conigli, il vostro nipotino, e il figlio della vostra amica conosciuta al corso di cucito. Non mi credete signori? Lo so cosa state pensando signore: di sicuro non mio figlio, di sicuro non mia figlia. Di sicuro…di sicuro… Abbassate le luci!»

Dal soffitto scese un enorme telone bianco su cui venne proiettato un filmato dallo stile voyeuristico-amatoriale. Una serie di immagini cominciò a colpire gli occhi degli ospiti e l’aula si riempì di grida di scandalo e disperazione. La pellicola mostrava senza alcun freno numerosi spezzoni che raccontavano la vita intima che si svolgeva nella biblioteca: rapporti sessuali tra gli scaffali di sociologia e multimedia, nei bagni, nell’ufficio della direzione, nelle scale. Ogni tanto le citate scene casalinghe, riprese con potenti teleobiettivi, apparivano sul telone riportando alla mente l’allegra scenetta della mamma in cucina narrata poco prima dal procuratore.

Leonbattaglia attese che le immagini conducessero gli stati d’animo dei presenti alla giusta temperatura per continuare con più enfasi.

«E’ questa la cultura? E’ questo lo studio? Sono questi i nostri figli? No. Questi sono dei mostri, dei mostri diventati tali a causa nostra, dei mostri che ci hanno ingannato indossando l’abito dei letterati, per soddisfare invece i più infimi pruriti in tutta tranquillità, sconsacrando un luogo di pubblico beneficio Noi che ci siamo fidati, che gli abbiamo consentito di avere un nuovo spazio tutto loro, noi che eravamo compiaciuti dal vederli frequentare la biblioteca, un luogo saggio per definizione, e abbandonare bar, locali, campi sportivi. Noi che siamo responsabili dobbiamo avere la forza di agire adesso, di dire basta!» Leonbattaglia adesso urlava e puntava il dito verso la platea. «Che ne è dell’amore autentico? Che ne è dell’affetto, della reciproca comprensione tra un uomo e una donna? Che ne è dell’aspettare la persona giusta per donare il fiore più prezioso?» Il clima nella sala era sempre più rovente, il montaggio si interruppe lasciando il posto ad un vecchio ritratto del Conte Cavalier Filippo Maria Casalto, il nobile mecenate che aveva fondato la città un secolo prima.

«Signori» proseguì il procuratore più calmo, «signore…mettetevi una mano sul cuore e ricordatevi di colui che appare sopra me e sopra tutti noi» indicando il Conte Filippo Maria. «Colui che con grande sacrificio e con le mani dei suoi servitori costruì questa splendida e armoniosa comunità. Un uomo che fece dell’esercizio della castità la molla necessaria per far sorgere la creatività dentro di sé, come gli aveva saggiamente insegnato il suo vecchio maestro Isacco Newton. In suo nome, che è lo stesso della nostra patria, del nostro nido, del nostro Dio, vi chiedo di applaudire forte per porre fine alla nostra, sconsolata, irremovibile colpa. Con le stesse mani poi tornate a casa, ed insegnate ai nostri figli il significato di una carezza. Ho finito!»

Un applauso impetuoso e scrosciante scoppiò improvviso, bagnato dalle calde lacrime della maggior parte dei presenti. I giovani imputati raggruppati sulla destra, corsero incontro ai loro genitori abbracciandoli e implorando perdono per tutte le malefatte e le nefandezze perpetrate in quei mesi. I genitori li accolsero con passione, perdonandoli e accarezzandogli il capo come consigliato da Leonbattaglia. L’applausometro registrò un valore esorbitante, secondo solo al record detenuto dallo stesso Leonbattaglia, quando vinse la causa per imporre agli immigrati africani di parlare sottovoce in luoghi pubblici.

In mezzo a tutto questo trambusto, a questa remissione dei peccati giovanili, Michelangelo fu l’unico a rimanere al suo posto, impassibile, aspettando pazientemente il momento della sua arringa.

Quando gli animi si furono un po’ placati, il giudice chiese alla sala di fare silenzio per dare la parola alla controparte. Ormai il pubblico era completamente schierato con il procuratore; in atteggiamento messianico, stringeva le mani dei presenti che accorrevano al suo cospetto. Con un sorriso di soddisfazione, infine, Leonbattaglia si sedette al suo banco fissando Michelangelo con un’aria di leggiadra tenerezza. Quest’ultimo si alzò e si diresse verso il pulpito, mentre qualche ragazzo cercava di farlo desistere consigliandoli di tornare anche lui tra le calde braccia del padre. Quindi aspettò qualche secondo prima di iniziare. Un silenzio minaccioso riempiva l’aula, un silenzio pronto ad aggredire qualsivoglia argomentazione fosse stata presentata dal rampante Michelangelo, che appariva però incredibilmente sicuro di sé e attraversato da una vena di disincanto. Quando cominciò a parlare, il suo tono di voce era fermo e deciso, ed il suo sguardo sostenuto dal lampo del guerriero pronto alla battaglia.

«Cosa hanno appena visto i miei giovani occhi: una vergogna, una cloaca sommersa da spiriti deboli, afflosciati, spaventati dalla propria autodeterminazione. Le vedo le vostre facce. Le vedo, si, che mi scrutano con indifferenza, con un sentimento mescolato di pietà e diffidenza. Li vedo i vostri cuori, venduti al timore del cambiamento, della libertà, venduti allo sconcerto della coscienza delle diversità.» Michelangelo si rivolgeva ormai alla sinistra dell’aula, dal momento che la parte destra era completamente vuota. «Ma non voglio controbattere alle argomentazioni del procuratore, né smontare le prove addotte. Qui si sta combattendo su un campo di battaglia che è ben lontano da qualche peccatuccio giovanile, qui si sta combattendo per il nostro destino. Voglio raccontarvi una storia.» Nonostante il pregiudizio, tutti nell’aula subivano l’innato fascino dell’eloquenza di Michelangelo, e non riuscivano a non prestare attenzione alle sue parole. «Qualche decina di anni or sono, il Conte Cavalier Filippo Maria Casalto, nostro esimio patriarca, tornò dall’oltretomba per visitare la città da lui fondata, e vedere così come si stavano comportando i suoi discendenti. Apparì all’improvviso, durante le celebrazioni del giorno della castità, e tutti i cittadini, guidati da una forza sovrannaturale, lo riconobbero all’istante. Una povera donna, vestita di stracci e appesantita dalla figlioletta che si stringeva a lei e alla sua gonna, fu la prima a corrergli incontro, chiedendo al fantasma del nostro sacro benefattore di guarire la sua piccola bambina affetta da tisi. Questi la guardò negli occhi appoggiando la mano sul capo della creatura, ed istantaneamente la figlioletta fu liberata dal suo male. La folla lo travolse di preghiere gridando al miracolo, ed il Conte Filippo Maria Casalto cominciò pazientemente a guarire gli ammorbati, gli storpi e gli infelici che si aggrappavano al suo mantello. Richiamato dal trambusto, l’allora procuratore vicario Sebastiano Ilgrande, circondato da una schiera di fedelissime guardie, si fece largo tra il carnaio. Quando lo riconobbe ordinò il suo arresto. La scorta ammanettò il Conte, ma la gente, nonostante il miracolo a cui stavano assistendo, non proferì parola di fronte all’autorità del procuratore. Giunti alle prigioni Sebastiano Ilgrande ebbe una lunga conversazione con il prigioniero, o almeno ci provò. Perché nonostante tutti i tentativi di instaurare un dialogo, il nostro benefattore non proferiva parola. Il procuratore Ilgrande gli parlò per ore senza ricevere risposta. E sapete cosa gli disse? Sapete perché lo arresto? Perché il Conte voleva portare ai suoi figli il dono della libertà. La libertà, il nemico più temuto dall’autorità. Il suo ritorno, il ritorno in terra della vita e dell’amore sono un pericolo troppo grande per i nostri governanti. Quale castità, quale castità? Lo sapete tutti in fondo, anche se non volete leggere tra le pieghe della vostra anima, che il nostro patriarca fondò questa splendente comunità prendendo in sposa una prostituta. Fu lui il primo libertino, fu lui il primo a spingersi al di là del bene e del male, al di là del chiacchiericcio, e a far trionfare l’amore per la vita oltre tutti i dogmi e tutti i pregiudizi. Proprio così signori, Leonbattaglia ha usato belle parole, ha usato l’arma della castità; ma l’arma della castità, del razzismo, dell’omofobia, è stata impugnata fin troppe volte dall’amministrazione comunale, maligna dittatrice che per tutti questi anni ci ha tenuto prigionieri di noi stessi giocando sulla nostra paura, sulla paura dell’altro, sulla paura di essere mal giudicati. Bisogna essere forti cittadini di Casalto, bisogna ripulire il mondo con il cuore gonfio d’amore. La grande menzogna: usare il nome del nostro caro e beato benefattore Filippo Maria Casalto mettendogli in bocca parole e concetti che non aveva mai espresso, e tantomeno seguito. Perché avrebbero dovuto far questo? Per continuare a tenerci prigionieri. Ma i prigionieri verranno liberati. E se è un colpevole quel che cercate, un colpevole avrete. Io sono il colpevole. Io sono il proprietario dei preservativi, e con orgoglio mi dichiaro un corruttore del buon costume di Casalto, perché con le mie azioni, sbattendomi delle puttanelle nel bagno della biblioteca, mi avvicino al nostro nobile fondatore più di tutti voi. Ancora una volta con queste bieche armi, con il moralismo stanno cercando di privarci della nostra vita, della gioia del sesso e della carne, della danza e dell’amore. Ma io, come il marchese De Sade imprigionato nella torre più alta della Bastiglia, vi chiedo di venire a liberarmi; che le forze rivoluzionarie abbattano questa aristocratica amministrazione che ci opprime, che gli operai si ribellino ai padroni, che gli omosessuali si rivelino senza timore, che la vita ritorni nelle nostre mani. Io sono un libertino, voi siete libertini. Libertà! Libertà! Libertà!»

Michelangelo non aveva nemmeno finito di concludere la sua arringa che l’applausometro scoppiò. L’acclamazione, che era cresciuto sempre di più con il procedere delle argomentazioni del giovane, si era trasformata in una vera e propria incontrollabile bolgia dionisiaca. Michelangelo venne lanciato in aria da alcuni ragazzi in pieno giubilo, altri cominciarono a sfasciare le panche dell’aula, il procuratore Leonbattaglia, caduto a terra in preda alle convulsioni e guidato da un’istantanea crisi esistenziale, dichiarò la propria omosessualità. In mezzo alla gioia e ai festeggiamenti, tra grida e festanti cori inneggianti la vita, l’amore e la libertà, i sindacati ordirono un piano per rovesciare l’ordinamento della città. Poche ore dopo un corteo di rivoluzionari battenti bandiera rossa marciarono verso il palazzo comunale, sfondarono il portone con un ariete e appiccarono il fuoco a qualsiasi cosa gli si parasse davanti; alcuni erano armati di brioche. Sindaco, vicesindaco, assessori e tutta l’amministrazione comunale, vennero pubblicamente impiccati la sera stessa nella piazza centrale, circondati da una folla danzante, in preda ad onirici festeggiamenti a base di vino e promiscuità.

– Una storia sulla vanità e sulla fine del mondo –

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