Arte

Le improbabili morti degli scrittori

Il mito dello scrittore alcolizzato, disastrato e depresso, si sa, è duro a morire. L’immagine di un povero disgraziato sull’orlo di una crisi di nervi, curvo su una tastiera, con una bottiglia di whisky alla sua sinistra e una rivoltella alla sua destra, intento a battere tasto su tasto “il grande romanzo mondiale” è una di quelle immagini che popola (impropriamente) l’immaginario collettivo. Credo si tratti del vecchio retaggio del “maledettismo latente” che ci portiamo dietro dal liceo. Quello che, per intenderci, tra il Parini e Foscolo (manco si trattasse di Pelé vs Maradona) ci faceva simpatizzare inevitabilmente per quest’ultimo. La realtà, però, è spesso clamorosamente diversa. Nonostante Jaspers cerchi di convincerci che genio e follia vadano a braccetto, molti celeberrimi scrittori hanno coltivato vite tranquille e riservate. Oppure hanno sfruttato l’onda del successo e il savoir-faire per trasformarsi in personaggi pubblici e/o opinion leader tanto rispettati quanto populisti. Perché, tanto quanto è fallace il mito dello scrittore disastrato, ugualmente è falsa l’idea che si possa sempre piacere a tutti. E che il successo (Italia esclusa, ovviamente) sia una cambiale da limitarsi a riscuotere una volta raggiunto l’Empireo degli “intoccabili”.

Detto questo, gli autori di best-seller contemporanei sono sempre più simili a dei grandi campioni dello sport o a degli archistar: figure che hanno alle loro spalle agenti, sottoposti, bassa manovalanza, crew di pubblicitari, informatici, social-engineer e via discorrendo. Plotoni di carne da cannone pronti a farsi macellare per quelle decine di migliaia di copie in più. Oppure per una traduzione capace di aprir loro le porte ai grandi e appetitosi mercati internazionali. Là dove vi erano vite sconclusionate e tristerrime vi è ora lusso e paillettes. O, nella peggiore delle ipotesi, Fabio Volo. La storia, però, è maestra di vita e, benché venga scritta dai vincitori e non dai vinti, ha un suo andamento alquanto curioso: quelli che erano autori di best-seller nel diciassettesimo o diciottesimo secolo, ad esempio, sono ora scrittori pressoché dimenticati. Quindi c’è una discreta speranza che, tra un secolo o giù di lì, il mondo intero si dimentichi di Susanna Tamaro o dell’autrice della saga di Twilight.

Nell’attesa che si compiano queste profezie (alle quali, per ovvie ragioni cronologiche, non potremo assistere), mi piacerebbe passare in rassegna le vicende biografiche di alcuni grandi scrittori che, oltre al successo postumo, hanno trovato o si sono imposti una morte quanto meno assurda o curiosa. Vorrei subito precisare che non vi è alcun intento ironico o sarcastico nel ripercorrere le vite (spesso drammatiche) di questi personaggi. Più che altro trovo interessante documentare la fine di personaggi che hanno spesso messo la loro scrittura davanti a ogni altra cosa, raggiungendo l’apice di un’identificazione artista-opera d’arte tanto tenace quanto dolorosa. Figure “larger then life”, insomma, capaci di perseguire le loro peculiarità artistiche attraverso i duplici stati del sogno e dell’ebbrezza (Nietzsche docet) e non per mezzo di colonscopie intellettuali praticate nei vari salotti televisivi italioti.

Arrivati a questo punto, e dopo avervi sufficientemente ammorbato con i miei sproloqui, direi di iniziare questa rassegna. Fedeli alla teoria della tragedia greca, secondo cui le vicende hanno un inizio ironico per poi finire in modo drammatico, iniziamo proprio con uno dei padri di suddetta tragedia. Ironia della sorte, la sua fine è una delle più assurde.

– Eschilo (525 a.c.-456 a.c.): di nobile famiglia ateniese, Eschilo fu il primo tragediografo antico di cui ci siano pervenute opere complete. Fu, assieme a Sofocle ed Euripide, uno dei padri della tragedia greca antica e uno dei drammaturghi più conosciuti e rappresentati nel mondo. Si formò come soldato e combatté contro i Persiani nelle fondamentali (almeno per gli ateniesi) battaglie di Maratona, Salamina e Platea. Iniziata l’attività di drammaturgo, divenne subito famoso per l’introduzione nell’agone tragico di numerose innovazioni stilistiche quali l’utilizzo di maschera e coturni (calzari classici); nonché per la moltiplicazione dei personaggi (in origine la tragedia greca prevedeva un solo protagonista). Fu autore di una novantina di opere, ma ai nostri giorni ne sono giunte solamente sette, tra cui spiccano “I Persiani” e la trilogia (una delle prime dell’antichità) de “L’Orestea”. Iniziato ai misteri eleusini per la gioia di Übermensch-Nietzsche, Eschilo soffrì l’esilio a Gela, accusato di empietà per aver condiviso i segreti rivelatisi nel corso del rito eleusino. Sul suo epitaffio non vennero ricordati i successi teatrali, bensì venne rivendicata la partecipazione alla battaglia di Maratona.

La morte: mentre era beatamente seduto a Gela, Eschilo venne colpito in testa da una tartaruga, lasciata cadere da un’aquila (anche se alcune fonti parlano di un gipeto) che, scambiata la calva testa di Eschilo per una pietra, sperava così di rompere il guscio della tartaruga per potersi cibare del succulento contenuto. Eschilo morì sul colpo. La povera e golosa aquila (o gipeto) aveva inconsciamente (e con modalità assurde) ucciso uno delle più colte personalità del mondo antico.

– Julien Offray de La Mettrie (1709-1751): filosofo, medico e scrittore francese, Offray era, a detta del Re di Prussia Federico il Grande “una persona allegra, un buon diavolo, un buon dottore e un pessimo scrittore. Chi non ha letto i suoi libri può essere felice”. Considerato uno dei padri dell’illuminismo e del materialismo europeo, Offray scrisse numerosi saggi e trattati di carattere medico e teologico. In un’Europa di certo non propensa all’ateismo e al materialismo, Offray non ebbe sempre vita facile. Fu, infatti, costretto a cambiare divere residenze a causa delle sue idee e pubblicazioni, finendo però con l’accattivarsi le simpatie di numerosi nobili tra cui il sopracitato Federico. La sua visione della vita, prettamente materialistica e voluttuosa, gli fece formulare numerose teorie di carattere scientifico-naturalista, che lo portarono a guadagnarsi un posto d’onore nell’ambito delle scienze cognitive.

La morte: durante un banchetto in suo onore (Offray aveva curato con successo un nobile francese), Offray decise di fare sfoggio della sua proverbiale ingordigia e della sua robusta costituzione. Si abbuffò, così, violentemente di paté ai tartufi (Federico parla, invece, di piatti a base di fagiano), finendo per farne indigestione. La febbre salì forte e rapida, e la scelta di Offray di curarsi per mezzo di salassi non si rivelò appropriata. Il Re di Prussia, ignaro di avere a che fare con un uomo tanto simpatico quanto testardo, lo sconsigliò vivamente, ma Offray non volle saperne. I salassi aggravarono il quadro clinico (già debilitato dai tartufi/fagiani), e Offray si spense a soli 42 anni. Inutile aggiungere che i detrattori di Offray usarono la sua morte precoce per screditare le sue idee e la sua filosofia. Più di una teoria scientifica poté un’indigestione.

– Jan Nepomucen Potocki (1761-1815): il conte Potocki fu uno scrittore polacco, noto principalmente per il romanzo “Manoscritto trovato a Saragozza”. Di famiglia nobile, Potocki viaggiò molto nel corso della sua vita, compiendo missioni diplomatiche in Europa e in Asia. La profonda conoscenza degli usi e costumi di numerose civiltà e popolazioni fece sì che Potocki sviluppasse quella curiosità intellettuale e quella passione per il pastiche letterario (intesa come commistione di generi) che sono alla base del suo romanzo più famoso. “Manoscritto trovato a Saragozza”, infatti, è una sorta di romanzo a scatole cinesi, la cui struttura (seppur in maniera vaga) è avvicinabile a “Le mille e una notte” o ai “Racconti di Canterbury”. Potocki diede vita, infatti, a un romanzo di formazione dalle molteplici e svariate sfaccettature, capaci di comprendere tematiche estremamente diverse e, spesso, contrastanti tra loro. Romanzo curioso e moderno, “Manoscritto trovato a Saragozza” ha ispirato numerosi autori successivi, secondo modalità e influenze tanto vaste quanto imprevedibili. Immancabile.

La morte: colpito da una forte depressione, il conte Potocki venne illuminato dalla vista di una fragola d’argento che adornava una sua teiera. Decise così di svitarla e iniziò a limarla con cura e precisione. La limò giorno dopo giorno, alternando questa pratica alle consuete attività che caratterizzavano la sua vita di nobile. Quando la fragola raggiunse la forma di una sfera e fu sufficientemente piccola per poter entrare nella canna della sua pistola, il conte Potocki la fece benedire dal cappellano del castello e, semplicemente, si sparò, mettendo così fine ai suoi giorni. Strawberry fields (of Gold).

– Aleksandr Sergeevič Puškin (1799-1837): scrittore, poeta e drammaturgo, Puškin fu certamente uno dei più grandi autori romantici del suo tempo. Di famiglia discendente dall’antica aristocrazia russa, Puškin compì studi svogliati, ma sufficienti a garantirgli una formazione di carattere occidentale. Iniziò così a vivere una bohème intellettual-sessuale-artistica nella San Pietroburgo dell’epoca, vero e proprio coacervo di opportunità e distrazioni. Nei salotti Pietroburghesi si fece riconoscere per le sue idee moderne e progressiste, guadagnandosi così il confino nella Russia meridionale, sotto pressioni dello zar Alessandro I. Dopo alcuni anni di “esilio” (durante i quali la sua fama crebbe esponenzialmente), Puškin tornò a San Pietroburgo nel 1825. La sua scalata verso l’apice del Parnaso sembrava essere senza fine, coronata dal matrimonio (nel 1831) con la bellissima Natal’ja Nikolaevna Gončarova. La coppia ebbe quattro figli ma, come insegna il vecchio Chinaski “più di un valent’uomo fu rovinato da una donna”. Puškin non fu da meno.

La morte: oltre che bellissima, Natal’ja Gončarova aveva anche una discreta passione per il lusso (da qui la difficile situazione economica dei Puškin) e per i cicisbei. Tra questi spiccava George d’Anthès, barone francese che aveva sposato (forse per occultare una relazione con Natal’ja stessa) la sorella maggiore della moglie di Puškin. Informato dell’infedeltà della moglie da una lettera anonima, Puškin insultò violentemente il padre del cicisbeo, ottenendo in cambio una sfida a duello da parte di d’Anthès. Il duello si svolse alle quattro del pomeriggio dell’8 febbraio 1837. Puškin sparò al cuore del barone, ma colpì un bottone della sua divisa (alcuni testimoni riportano, invece, che il barone si fece fare una cotta di maglia per proteggersi da una possibile pistolettata del rivale). D’Anthes, invece, colpì Puškin all’addome, causando la setticemia che portò Puškin alla morte dopo due giorni di atroci sofferenze. Cornuto e mazziato, Puškin dimostrò addirittura pentimento, ottenendo funerali religiosi.

– Edgar Allan Poe (1809-1849): poeta e scrittore americano, Poe è considerato uno dei padri del romanzo dell’orrore e del poliziesco di carattere metafisico. Scrittore tanto visionario quanto poliedrico, Poe ha al suo attivo decine e decine di racconti e raccolte poetiche, nonché numerosi articoli giornalistici e saggi di carattere sociale e letterario. Nato nel 1809 a Boston da una coppia di attori, il giovane Poe rimase orfano all’età di due anni, venendo “adottato” da John Allan, un ricco mercante di Richmond. Studiò in Inghilterra, dove si appassionò agli scrittori e poeti inglesi, salvo poi fare ritorno negli Stati Uniti. Si iscrisse, così, all’Università della Virginia, dovei le crisi d’amore, la vita dissipata e i debiti contratti lo portarono a rompere i rapporti con il padre adottivo, il quale lo diseredò nel 1834. Poe visse quindi una vita di stenti e fatiche, utilizzando la scrittura come unica fonte di (misero) reddito. Da buon romantico decadente, tutti i suoi amori erano tragici e si concludevano con grandi opere poetiche struggenti e dolorose. La sua più grande passione femminile fu la giovane cugina Virginia Clemm, sposata quando lei aveva appena tredici anni. Fu un amore bruciante e sfortunatissimo, che si concluse con la morte della moglie nel 1846, a causa della tubercolosi. Come risposta a un dolore così viscerale, Poe si attaccò alla bottiglia, acuendo i suoi già notevoli problemi di alcolismo.

La morte: se il mistero fu la cifra di gran parte della sua produzione letteraria, anche la sua dipartita ne fu pregna. Edgar Allan Poe fu trovato il 3 ottobre 1849, delirante e malconcio per le strade di Baltimora. Nei quattro giorni che precedettero la sua morte (Poe si spense il 7 ottobre 1849 alle 5 del mattino), lo scrittore non fu mai abbastanza lucido da spiegare perché si trovasse in così gravi condizioni, né perché indossasse vestiti non suoi. Il caso fu rubricato dai giornali dell’epoca alla voce “infiammazione celebrale” (termine sotto cui passavano i disdicevoli casi di alcolismo). Tutte le carte ospedaliere e i referti medici scomparirono nel corso di poche settimane, così che la causa della morte di Poe rimane tutt’ora ignota. Se le ipotesi più plausibili sono quelle dell’epilessia, del delirium tremens, della sifilide o della meningite, le più curiose sono quelle della rabbia o del “cooping”, pratica ottocentesca che prevedeva il rapimento di un individuo e il suo successivo stordimento mediante robuste (e, spesso, letali) dosi di alcolici. Finalità del “cooping” era quella di far votare numerose volte in diversi seggi elettorali un “elettore fantoccio”, così da falsare i risultati delle elezioni. Nell’ottobre del 1849 a Baltimora, nel Maryland, erano effettivamente in corso le elezioni politiche. Edgar Allan Poe potrebbe essere stata la vittima più illustre del “cooping”. “Orrore e fatalità hanno traversato il mondo in ogni tempo”, recita l’incipit di “Metzengerstein”. Come dargli torto.

– Emilio Salgari (1862-1911): Salgari, padre del pirata Sandokan, fu certamente uno degli scrittori italiani più letti e stampati nel corso del XIX° e XX° secolo. Vero e proprio autore di best-seller ante litteram, Salgari è padre di una bibliografia tanto vasta quanto eterogena. Scrisse principalmente romanzi d’avventura (di lui si ricordano i cicli dei Pirati della Malesia e quello dei Corsari delle Antille), ma si dedicò anche al romanzo storico e fu tra i precursori italiani del romanzo di fantascienza. Fiutata la gallina dalle uova d’oro, gli editori ne approfittarono per sottoporlo a contratti-capestro, i quali lo costringevano a interminabili e insostenibili sedute di lavoro. Salgari doveva “produrre” tre libri all’anno, per cui passava la maggior parte del tempo a fare la spola tra il tavolo di lavoro e la biblioteca per potersi documentare, sottoponendo così il suo corpo a uno stress psico-fisico estremo. Il quale, con l’andare del tempo, si fece inaccettabile. A ciò si aggiunse, poi, il fatto di non venire minimamente considerato dai circoli letterari dell’epoca, per i quali i romanzi di Salgari erano divertissement da poco; di certo non opere letterarie degne di nota.

La morte: stremato dalla fatica e dall’insostenibile mole di lavoro (a cui va aggiunta una salute psichica minata anche dalla malattia della moglie Ida, ricoverata in manicomio), Salgari si uccise la mattina del 25 aprile 1911 (aveva già tentato il suicidio nel 1909, gettandosi contro una spada), nel bosco torinese di Val San Martino. Si squarciò atrocemente gola e ventre con un rasoio, compiendo così il più classico degli harakiri. Ai figli lasciò un biglietto testamentario in cui rimarcava la sua condizione di vinto, nonché un piccolo credito. Infinitesimale se rapportato ai guadagni che aveva assicurato ai suoi editori. Curiosamente, anche il padre di Salgari morì suicida (1889), medesima sorte che toccò ai figli Romero (1931) e Omar (1963). La moglie Ida, invece, morì in manicomio nel 1922. La giovane figlia Fatima era morta di tubercolosi nel 1914, mentre l’ultimo figlio Nadir morì nel 1936 a causa di un incidente motociclistico. Ecatombe.

– Virginia Woolf (1882-1941): scrittrice, saggista e attivista politica britannica, Virginia Stephen (poi coniugata Woolf) nacque dalle seconde nozze di sir Leslie Stephen (noto critico letterario e storico) e di Julia Prinsep. Cresciuta, grazie alle amicizie del padre, nei migliori salotti letterari vittoriani, Virginia si appassionò ben presto alla scrittura, iniziando a collaborare poco più che ventenne con il supplemento letterario del Times. Fu tra i fondatori del Bloomsbury Group, un circolo artistico e culturale che animò la vita intellettuale dell’Inghilterra dagli inizi del ‘900 fino alla fine della Seconda guerra mondiale. I principi del Bloomsbury, che erano poi anche i principi della Woolf, erano di carattere prettamente opposto rispetto a quelli del conservatorismo vittoriano. Rivendicazione dei diritti femminili, libertà sessuale, pacifismo, erano i valori che il Bloomsbury promulgava, attirandosi così numerose critiche da parte dei benpensanti e dei conservatori britannici ed europei. Virginia Woolf collaborò attivamente alla crescita e allo sviluppo di questo circolo, donandogli fama e risalto con i suoi articoli e interventi (spesso polemici) in aperto contrasto rispetto alla classe borghese. Fu autrice di numerosi romanzi, oramai quasi tutti considerati dei classici della letteratura mondiale, tra i quali spiccano “Gita al faro”, “La signora Dallaway” e “Le onde”.

La morte: dopo aver sofferto in appena un decennio della scomparsa della madre (1895, quando Virginia era appena tredicenne), della sorellastra (1897) e del padre (1904), la Woolf ebbe il primo serio crollo nervoso della sua esistenza. Da lì iniziò un susseguirsi di crisi depressive, sbalzi d’umore e tentativi di suicidio, che non si placarono né con il matrimonio con il teorico della politica Leonard Woolf (1912), né con la pubblicazione del suo primo libro (1913). In concomitanza con quest’ultima, infatti, la Woolf ebbe una seconda e fortissima crisi depressiva, che la portò a tentare nuovamente il suicidio. L’amore del marito e la passione per la scrittura mitigarono le sue sofferenze senza, però, riuscire a placarle del tutto. La Woolf visse altri due decenni travagliati, duranti i quali il successo letterario andò di pari passo con il crollo emotivo, fino al fatidico 28 marzo del 1941. Di buon mattino, Virgina uscì di casa con le tasche piene di sassi, e si lasciò annegare nel fiume Ouse, poco distante dalla dimora di Rodmell dove risiedevano i Woolf. Nel togliersi la vita, Virginia non poteva sapere che il Terzo Reich aveva stabilito che, in caso di occupazione nazista della Gran Bretagna, i Woolf sarebbero stati al terzo posto nella lista delle persone sgradite da eliminare. Prima di morire lasciò una toccante lettera d’addio al marito Leonard, il quale descrisse il suicidio della moglie e la loro vita assieme in un libro autobiografico dal titolo “The Journey” (il viaggio). Il libro uscì nel 1969. Pochi mesi dopo la pubblicazione Leonard Woolf morì.

– Antoine de Saint-Exupéry (1900-1944): figlio del visconte Jean de Saint-Exupéry e di Marie Boyer de Fonscolombe, Antoine de Saint-Exupéry (noto al mondo intero per essere stato l’autore de “Il piccolo principe”) visse un’infanzia tranquilla, seppur funestata dalla perdita del padre a soli quattro anni di età. Frequentò collegi e scuole private, appassionandosi alla scrittura e all’aviazione. Terminati gli studi iniziò ben presto a svolgere la professione di pilota per la compagnia aerea francese Aéropostale, per la quale coprì numerose volte la tratta Tolosa-Dakar. Trasferito a Buenos Aires, vi conobbe la donna della sua vita: Consuelo Suncín-Sandoval Zeceña de Gómez, una scrittrice e pittrice salvadoregna in contatto con i circoli surrealisti francesi. Fu un amore difficile e travagliato, che però non strappo de Saint-Exupeéry alle sue due vere passioni: il volo e la scrittura. Negli anni trenta iniziarono a uscire i primi romanzi e i primi scritti sul volo, che gli portarono un buon successo sia in patria che all’estero. Nel 1939, dopo aver lavorato come inviato di guerra nel corso della Guerra civile spagnola, de Saint-Exupéry si arruola nell’aviazione militare francese; l’età e lo stato di salute, però, gli permettono di svolgere solamente voli di ricognizione. Nel 1943, in piena Seconda guerra mondiale, pubblica “Il piccolo principe”: il successo planetario dello scrittore-aviatore è compiuto.

La morte: il 31 luglio del 1944 Antoine de Saint-Exupéry parte per una missione di ricognizione in una zona tra la Sardegna e la Corsica. Decollato con un F-5 dalla base di Borgo in direzione Lione, non raggiungerà mai la città francese. Inizialmente si pensò a un incidente in volo o un caso di suicidio, anche se l’ipotesi della “fuga” romantica dell’autore de “Il piccolo principe” non venne mai accantonata del tutto. La cruda verità, però, saltò fuori a sessant’anni di distanza, grazie a un team di ricercatori che volle vederci chiaro sulla morte di Saint-Exupéry. Più prosasticamente l’F-5 dello scrittore francese fu abbattuto da un Messerschmitt tedesco mentre era in volo sul Mediterraneo (i rottami vennero ritrovati da un’equipe di sommozzatori marsigliesi). Dopo quattro anni d’indagini e ricerche, nel 2008 venne rintracciato anche il pilota tedesco che aveva abbattuto l’aereo di Saint-Exupery: si tratta di Horst Rippert, ottantenne ex-pilota della Luftwaffe. Intervistato in merito, disse di aver sempre sperato che il pilota abbattuto non fosse Saint-Exupéry, in quanto ne aveva apprezzato enormemente le opere. Nazi-fan.  

– Tennessee Williams (1911-1983): pseudonimo di Thomas Lanier Williams, Tennessee Williams è stato certamente uno dei più noti autori e registi teatrali statunitensi. Di lui si ricordano capolavori come “Lo zoo di vetro”, “Un tram chiamato desiderio” e “La gatta sul tetto che scotta”. Tennessee ebbe una carriera ondivaga, caratterizzata da una tiepida ma interessata accoglienza agli esordi, un successo notevole negli anni ’50 e ’60, un lento declino nel corso degli ultimi decenni della sua esistenza. Fu un autore controcorrente, capace di inserire tematiche inaspettate all’interno di rappresentazioni che strizzavano l’occhio al gusto e allo zeitgeist dell’epoca. Tennessee Williams era un uomo molto attaccato ai sentimenti e al rapporto con il pubblico. Furono proprio questi due aspetti a contribuire in maniera decisiva ai suoi stati d’animo e alle sue reazioni agli insuccessi, tanto amorosi quanto professionali. Legato sentimentalmente per quasi una quindicina d’anni all’attore dilettante Frank Merlo, Tennessee Williams soffrì enormemente per la fine del loro rapporto e per la morte improvvisa di quest’ultimo (1963). Aumentò, così, il ricorso all’aiuto di droghe, alcol e psicofarmaci, i cui “effetti collaterali” affettarono notevolmente le sue sempre più sporadiche apparizioni pubbliche. Nell’ultimo decennio della sua esistenza Williams era già per tutti un ex-drammaturgo. Peccato che fosse il solo a non aver compreso di recitare tale ruolo.

La morte: il 25 Febbraio del 1983, Tennessee Williams fu trovato privo di vita nella sua suite all’Hotel Elysee di New York. Il referto medico parlò di soffocamento causato dal tappo di un collirio che Williams usava sotto prescrizione medica. La ricostruzione dei fatti attribuì la causa della morte all’aver accidentalmente ingerito tale tappo, il quale avrebbe potuto essere eiettato dalla gola di Williams se l’abuso di alcol e barbiturici non avesse minato i riflessi involontari (tra cui quello della tosse) del drammaturgo. La tesi del soffocamento, però, non è comunemente accettata: l’amico di Williams Larry Myers, infatti, sostiene che il referto del coroner fu modificato successivamente, così da mascherare la reale causa della morte di Williams che andrebbe identificata con un’overdose acuta di alcol e barbiturici. Barbiturici che Williams deteneva legalmente per curare i frequenti stati depressivi e l’insonnia lancinante. Il collirio-gate, quindi, non è tutt’ora risolto.

– Hunter Stockton Thompson (1937-2005): nonostante in Italia sia ricordato maggiormente per il romanzo “Paura e disgusto a Las Vegas” (da cui di Terry Gilliam ha tratto un film con protagonisti Johnny Depp e Benicio Del Toro) Hunter S. Thompson è stato uno scrittore e un giornalista estremamente prolifico e innovativo. Creatore del cosiddetto “gonzo journalism”, ovvero una sorta di giornalismo basato più sull’impressione immediata e sulla rielaborazione stilistica piuttosto che sull’asettica riproposizione dei fatti, Thompson è stato corrispondente di numerose testate giornalistiche tra cui spicca certamente Rolling Stone. Il suo stile bizzarro, anticonformista e irriverente (incarnato nella figura del suo “alter ego” Raoul Duke”) ha fatto scuola nei decenni a venire, ispirando numerosi epigoni che, però, con l’Hunter S. Thompson originale hanno ben poco a che spartire. Autore di una sterminata mole di articoli di carattere politico, satirico e sportivo (le famose “Gonzo papers”), Thompson era noto anche per un affatto pacato utilizzo di droghe e alcolici, della cui assunzione dava dettagliate notizie nel corso dei suoi articoli. Pur non considerando le droghe un propellente per la stesura di una buona “Gonzo paper”, la descrizione dell’effetto rispondeva perfettamente al concetto di aderenza totale con lo stato d’animo e l’autobiografia che caratterizzavano il suo stile giornalistico. Col passare del tempo l’aderenza al suo alter ego divenne pressoché totale, tanto da fargli affermare che “quando vengo invitato a parlare in qualche università non so mai se stanno invitando Duke o Thompson, così non sono mai sicuro su chi devo essere”.

La morte: Thompson fu trovato privo di vita alle 17:42 del 5 febbraio 2005 nella sua casa a Woody Creek, in Colorado. La causa del decesso fu fatta ricondurre a un colpo di pistola, autoinflittosi dallo stesso Thompson. Nella stanza accanto vi erano la figlia adottiva Jennifer e il nipotino Will, i quali confusero il colpo di pistola con il rumore sordo di un libro caduto a terra. Thompson era al telefono con la moglie Anita, la quale scambiò il rumore del caricatore della pistola con quello dei tasti della macchina da scrivere del marito. Il colpo di pistola partì non appena Anita Thompson attaccò il ricevitore. Fu il figlio Juan a trovare il cadavere e ad avvisare la polizia. Nell’attesa sparò in aria tre colpi d’arma da fuoco per commemorare la dipartita del padre. Se alcuni amici sostennero fermamente la tesi del suicidio (le condizioni di salute psichica e fisica di Thompson, reduce da un intervento all’anca, non erano delle migliori), altri sottolinearono la curiosità di una morte tanto “innaturale”, soprattutto nel momento in cui Thompson aveva dichiarato di voler iniziare a lavorare su un’inchiesta sull’11 settembre, Avvalorando la tesi secondo cui gli attentati alle Twin Towers non furono contrastati dall’intelligence americana, così da giustificare una maggiore presa di potere da parte delle istituzioni. Thompson vittima di un omicidio-suicidio di carattere politico, quindi? Ai posteri l’ardua, impossibile, sentenza. A noi basti sapere che, in ossequio alle sue ultime volontà e al suo stile irriverente, le ceneri di Thompson vennero sparate in cielo con un cannone, posto a una cinquantina di metri d’altezza. Il funerale di Hunter S. Thompson-Raoul Duke, per la cronaca, fu pagato da Johnny Depp.

Andrea Gratton

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