Le Oltre favole

Le conseguenze di un litro di birra al doppio malto

Una ventina di esseri umani gracili e deformi ascolta il mio tono di voce baritonale e tremolante alternando istanti di concentrazione ad altri di totale abbandono cosciente. Questi vecchietti, bellissimi nella loro teatrale bruttura, assomigliano ad uno stormo di lucherini che migrano per venire a svernare, e sulla loro pelle, aggrinzita e caratterizzata da una colorazione che sfuma dal marroncino al blu scuro, si possono scorgere tutti gli agenti naturali che ne hanno causato l’erosione. Sono rannicchiati su delle poltroncine in lino disposte a semicerchio e rivolte verso il tavolo al centro della stanza animazione, dove leggo a voce alta, come ogni mattina da qualche settimana, alcuni articoli tratti dai quotidiani locali a questa platea di batterie scariche. Gli “ospiti”, così sono chiamati dalla responsabile della struttura, sono attratti dalle notizie di cronaca nera più di qualsiasi altra cosa, e manifestano il loro apprezzamento con mugolii indistinti delle più svariate tonalità. Tra questi, i nostalgici del ventennio non si fanno scappare l’occasione di interrompere di tanto in tanto la mia lettura, lanciandosi in energetici elogi al duce e alla sua sacrosanta e benedetta politica dell’ordine e del rigore. Mentre decanto, o meglio urlo, le gesta di qualche ladruncolo o stupratore seriale con atavica lentezza (metà di loro è mezza sorda, l’altra metà lo è completamente), non posso fare a meno di pensare alla decadenza che mi circonda. D’altronde, una casa di riposo non è certo un luogo che sprigiona gioia e felicità, sopratutto se assume la forma di un enorme cubo grigiastro di cinque piani, una sorta di girone infernale dantesco capovolto, dove nella parte più bassa si trovano coloro che hanno ancora qualche tipo di interazione con la realtà, e in quella più alta chi è a un passo dalla data di scadenza. La stanza dove mi trovo io, e dove sarò costretto a passare quasi tutte le mattine dei prossimi sei mesi in qualità di lavoratore di pubblica utilità, si trova al piano terra e non è altro che una saletta destinata all’animazione. Qui i cari nonnetti passano la maggior parte delle loro giornate aspettando sostanzialmente due eventi: il pranzo di mezzogiorno, e la cena delle diciannove, il tutto regolato da un enorme orologio appeso tra due finestroni che divide in secondi il poco tempo che rimane loro. Dalla parte opposta un enorme vetro a specchio separa la stanza da un corridoio, permettendo ai parenti di scorgere il proprio anziano senza correre il rischio di essere individuati, e creando un’ansiogena atmosfera da sala interrogatori. Le due pareti rimanenti sono infine tappezzate da disegnini e lavoretti manuali, molto simili a quelli che si trovano negli asili nidi o alle scuole elementari, ovviamente tutti realizzati dagli ospiti. Queste piccole opere d’arte, pressoché identiche a quelle che potrebbe forgiare un bambino di quattro anni, mi fanno pensare che la vita non sia nient’altro che una curva gaussiana: raggiunto il picco, si sprofonda inesorabilmente verso il basso; e un altro elemento che rafforza questa mia tesi è il tipo di rapporto che intercorre tra gli anziani e le infermiere, la cui unica occupazione è sostanzialmente quella di accompagnarli a urinare e defecare una ventina di volte al giorno e sgridarli come fossero degli infanti non appena si lamentano delle loro incalcolabili malattie.

Il mio compito invece è ascoltare le loro lagne e i dettagliati racconti delle loro passate tragedie, oltre a leggere il quotidiano o qualche storiellina tratta da un libro che raccoglie i racconti dei vecchi abitanti di Treviso, che loro ovviamente ricordano o conoscono personalmente.

Questa attività mi tiene occupato quattro mattine alla settimana per circa un paio di ore, durante le quali non faccio altro che immaginare la miseria che mi aspetta, a meno che un disastroso incidente stradale o un sacrosanto colpo apoplettico notturno non mi faccia restituire il biglietto prima di rincoglionirmi totalmente. Insomma, una bella rottura di palle. Anche se devo ammettere che qualche volta accade qualcosa di surreale e limitatamente comico, al punto tale che quei giorni quasi non mi viene voglia di suicidarmi. Una volta, per esempio, mentre tentavo di spiegare per la quinta volta ad un’infermiera di nome Marisa che la mia laurea triennale in scienze alimentari non faceva di me un cuoco, il signor Piero, un ossuto vecchietto sopravvissuto all’ictus, cominciò ad intonare a squarciagola il Va’ Pensiero, seguito a ruota in pochissimi secondi da una buona metà delle altre cariatidi. Non si capiva nulla, bofonchiavano delle mezze parole ma gridavano ad un volume tale che mi chiesi da dove tirassero fuori tutta quell’energia. Il primo verso faceva più o meno così:

Oh mia patria già bella e perduta.

Io non mi ricordavo affatto questo verso, ma finalmente capii perché la Lega prendeva tutti quei voti. Il coro proseguiva imperterrito, nonostante le minacce delle infermiere che intimavano di non accompagnare in bagno più nessuno per le prossime due ore. Una nonnina scorbutica si dissociava dall’esibizione urlando di smetterla altrimenti li avrebbe uccisi tutti. Era così decisa che sembrava essere in grado di farlo davvero, ma dopo un po’, contro ogni previsione, si fece coinvolgere anche lei e partecipò in qualità di mezzo tenore dimostrando un discreto talento musicale. Passata mezz’ora, gli anziani cantanti persero le forze tutto a un tratto e ricominciarono a vagare nel limbo delle loro sinapsi consumate. Quello fu un bel momento, più che altro mi divertiva vedere le infermiere incapaci di esercitare la minima autorità e perdere completamente la testa. Un’altra volta, un diabetico con la barba bianca, molto simile a Babbo Natale, mi raccontò come si fosse fratturato il femore. Era seduto nell’ultima fila del cinema, come chiamava la stanza dalle pareti scrostate della casa di riposo dove propinavano pellicole vetuste agli ospiti, quando ad un tratto percepì la necessità di fare “aria”. Il gonfiore alla pancia era insopportabile ma non voleva farlo proprio lì, in mezzo a tutti, lo avrebbero beccato immediatamente se avesse fatto rumore. Ora, per un vecchietto che si ritrova in quella condizione, pensare di alzarsi dalla sedia, attraversare la fila e andare in un’altra stanza per compiere un peto è un’impresa tanto ardua quanto per un nano schiacciare a canestro, tanto più che aveva provato ad attirare l’attenzione di qualche infermiera ma queste non lo avevano badato. Decise di fare tutto da solo. Aveva osservato che quelli che gli sedevano accanto avevano i piedi attaccati alle loro sedie, tanto da permettergli una scia libera da poter attraversare per uscire dalla platea. Alzatosi si incamminò lungo la via, non aspettandosi però il movimento di gamba di uno di questi che lo fece inciampare e di conseguenza perdere l’integrità del proprio femore. Inoltre cadendo non era riuscito a controllare la flatulenza che era esplosa rumorosamente. Insomma, una tragedia. Mi raccontò tutto con le lacrime agli occhi. A mio parere doveva essere orgoglioso di quell’aneddoto.

Le mattinate trascorrono così, tra qualche lettura, qualche aneddoto e migliaia di lamenti. Anche se, al contrario di quel che si può immaginare, la maggior parte dei lamenti non proviene dagli anziani, bensì dalle inservienti (o infermiere, non ho ancora capito la loro qualifica), le quali passano un buon ottanta per cento dell’orario lavorativo a discutere di quanto sia duro il loro mestiere, di quanto bassa sia la paga, della nuova riforma che le farà andare in pensione a centosessant’anni, e di un’altra quantità industriale di stronzate. Una delle commensali più attive di questo ripetitivo simposio è una povera signora sulla settantina affetta da demenza senile, alla quale è stato fatto credere dalla figlia, con il beneplacito di tutti i dipendenti della struttura, di essere stata assunta in qualità di aiuto infermiera, per indorare più facilmente la pillola. Non riesco a capire come possano mentirle con tanta tranquillità. Ho pensato a un piccolo e breve racconto dove una delle inservienti ingannatrici si rende conto di essere lei stessa un’ospite della casa di riposo, impazzisce e massacra tutti con un AK-47. Ho pensato che potrei essere io stesso un ospite ingannato e mi è venuto un piacevolissimo attacco di panico.

Mi ritrovo così, a ventinove anni, ad immergermi in un bel bagno caldo di realtà: le infermiere sostituiranno gli anziani, la mia generazione le infermiere, e alla fine di tutto, dopo anni di rotture di palle e di sacrifici, mi ritroverò costretto anche io a chiedere a qualche grassona di mezz’età di essere un po’ più delicata con la carta igienica multi-strato.

 

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