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Le mie avventure con la diarrea, 2° episodio: la mucca

Eccoci qua, secondo, e credo ultimo, appuntamento con la mini rubrica che vede protagonista la diarrea, quella compagna fedele che ogni tanto viene a trovare tutti noi. Dopo l’episodio raccontato ieri, che risale a sei anni fa, mi spingo ancor più indietro con la memoria simulando una sorta di recherche proustiana delle evacuazioni liquide. Buon divertimento.

La mucca

Siamo a Maggio, avevo circa sedici anni, ed ero andato con alcuni amici a fare una scampagnata in montagna. Non ricordo il posto ma sono sicuro fossimo in veneto; dovevamo raggiungere un rifugio dopo una camminata di circa un paio d’ore.

Ripeto, non ricordo il posto, ma sono costretto a descriverlo sommariamente per il bene del racconto, cercherò di essere il più breve possibile.

Allora, c’era questa valle da cui partiva un sentiero che si inerpicava su una montagna, montagna priva di vegetazione e ricca di piccoli sassi. Il sentiero andava su a zig zag, senza zone d’ombra. Pieno di gente, tipo concerto di Vasco.

Partiamo felici, c’era il sole, una piacevole brezza, la giovinezza, e un paio di amiche fighe che profumavano di biscotti come solo a sedici anni.

Tra sigarette, bestemmie e fantasie sessuali ad occhi aperti arriviamo in cima. Compriamo un po’ di cioccolata in rifugio, ne ingollo tre tavolette e svuoto una lattina di fanta.

Ci piazziamo sul ciglio di una scarpata e pranziamo con i panini portati da casa.

Ero seduto accanto a una mia amica, Alessandra, di cui ero innamorato, adolescentemente parlando si intende. A sedici anni amore vuol dire voglia di scopare, come a trenta vuol dire paura di restare soli.

Sta di fatto che abbandonato in un vortice emotivo scatenato dai suoi pantaloncini, comincio a percepire da sotto la mia maglietta che tra Eros e Thanatos sta per infilarsi la diarrea.

Spero sia solo un avvertimento.

Dopo circa venti minuti ci incamminiamo per tornare a valle. A quel punto dentro di me si muove il finimondo: devo farla, devo farla a tutti i costi. Il sentiero è gremito di persone di tutte le età e di tutte le classi sociali. Non c’è un albero, non c’è un cespuglio, non c’è nulla dietro cui mi possa riparare. Se la faccio lì l’universo intero testimonierebbe le mie gesta. Dilatando le pupille intravedo a valle un edificio in legno, sembra una stella, sembra la mia unica speranza, la mia salvezza.

Ora, fare un sentiero di sassi in discesa è già abbastanza complicato e rischioso, io lascio indietro gli altri e comincio a correre, a correre come Forrest Gump, ogni falcata è il prodromo di una morte certa, o perlomeno di un bacino fratturato.

Avete presente quella storia della mamma che riesce ad alzare un autobus ribaltato con le mani perché sotto c’è suo figlio morente? Bene, deve essermi capitata una cosa del genere. L’adrenalina era tale che sono arrivato a valle in cinque minuti senza cadere, senza morire e senza rimanere paralizzato.

Mi avvicino all’edificio in legno, è proprio una stalla, intorno sempre più gente. Cerco un pertugio per entrare, stupidamente penso che una stalla abbia un bagno. Il portone è aperto, mi ci infilo dentro. È buio, non c’è nessuno tranne una mucca incastrata in un piccolo recinto. Mi metto accanto alla mucca, creo un piccolo mucchietto col fieno e mi preparo a star meglio. Sono li, tra le mosche, tra la puzza, in compagnia di una vacca, ma finalmente posso farla.

“Maestra che cos’è una malga?”

“È dove si fa il latte Davide”

“Quello col nesquick?”

“Si ma il nesquick si mette dopo”

“Ma io voglio vedere le mucche”

“Un attimo Sara, appena arriva il signore… anzi eccolo qua.

Dai bambini, adesso andiamo a vedere la mucca!”

“Siiiiiiiiiiiiii!!!”

Il portone si spalanca all’improvviso mentre sono con le braghe calate impegnato ad eseguire il primo getto. Vengo travolto da un fascio di luce che mi abbaglia, poi subentra il panico. Intravedo un vecchio signore in salopette e una donna circondati da una trentina di bambini.

Immaginatevi come possa reagire una scolaresca di marmocchi di 9 anni, pieni di zuccheri in corpo per tutte le merendine che mangiano, alla vista di un tizio che caga a spruzzo accanto a una vacca.

Cominciano a urlare imbizzarriti in preda a un delirio mistico.

“Sta cagando, sta cagando, quel ragazzo sta cagando” indicandomi con mille indici; altra gente accorre per la curiosità, il vecchio e la maestra sono paralizzati da ciò che hanno visto, mi guardano basiti. Un centinaio di persone stanno ammirando le mie gesta.

Io con le pulsazioni a 380 comincio a sbraitare disperato, le vene gonfie, gli occhi inumiditi dalla disperazione.

“VOLETE CHIUDERE QUELLA CAZZO DI PORTA CRISTO SANTO NON VEDETE CHE STO CAGANDO, CHIUDETE LA PORTA CHIUDETE LA PORTA CAZZOOO!!!”

L’urlo funziona come un ceffone in faccia per il vecchio in salopette, che si ridesta dal torpore e chiude il portone.

Finisco di fare le mie cose con la mente obnubilata dall’enorme figura di merda dal sapore biblico che ho appena fatto. Quando esco dalla stalla tutti fanno finta di non fissarmi fissandomi. Tranne i bambini, loro ancora mi indicano sfacciatamente e il più bullo mi prende per il culo. Non ho la forza di reagire, cerco di allontanarmi dal capannello che si è formato.

Compaiono i miei amici, mi chiedono dove ero finito, gli dico che li avevo semplicemente distanziati perché ero più veloce di loro.

Alessandra mi prende in disparte, dice che ha appena incontrato un gruppo di ragazzi che le hanno detto che un tizio stava cagando dentro la stalla con una mucca. In un incomprensibile moto di sincerità le dico che ero io. Non so perché, non so quale follia mi abbia catturato per farmi ammettere una cosa del genere.

Però funzionò, perché prima rise e poi mi baciò.

Non è vero, non mi parlò mai più.

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