Oltre V.I.P.

Andrea Pazienza

Introduzione: ovvero del perché il Poeta è un fingitore

Una delle mie poesie preferite è una poesia di Fernando Pessoa intitolata “Se ti vuoi ammazzare, perché non ti vuoi ammazzare?”. Già da questo titolo, che è anche il primo verso della poesia, si potrebbe facilmente capire la tematica del testo: un invito a seguire la via del totale annullamento di sé, senza porsi troppi dubbi o senza farsi troppe remore. Tuttavia, il poeta di Lisbona riesce a risolvere la poesia in un modo completamente diverso. Là dove sembra inneggiare al raggiungimento della morte e alle minuzie dell’essere umano se rapportato al mistero del mondo, la poesia riesce invece a infondere un assurdo senso di speranza. Una voglia di vivere e lottare, la quale trasuda dai versi cinici e taglienti che fanno a gara per gettare il lettore in una sorta di memento mori allucinato e continuativo.

I versi della poesia che varrebbe la pena citare sono numerosi. Un passaggio, però, mi è particolarmente caro (e di certo non per la “schiettezza”: Pessoa raggiunge in questa poesia dei tassi di cinismo funerario ben più elevati), ovvero il seguente: «infine, lentamente, sei dimenticato./Sei ricordato in due date, anniversariamente:/il giorno della tua nascita, e il giorno della tua morte». Già, Pessoa aveva tremendamente ragione. L’assenza delle persone che ci sono care, solitamente, si risveglia in concomitanza con l’anniversario della loro nascita (a proposito, l’anniversario della nascita di Pessoa è stato il 13 giugno) e della loro morte. Il moltiplicarsi delle reti sociali e l’estrema “informatizzazione” delle nostre esistenze, poi, hanno fatto sì che tali ricorrenze venissero festeggiate a mo’ di catena di San Antonio. Con il proliferare di link, citazioni, frasi fatte e via dicendo. Tutte azioni che, più che dimostrare una reale partecipazione all’assenza della figura che si va a ricordare, svelano ciò che Pessoa (poeticamente) chiamava «la cinematografia delle ore recitate/da attori di convenzioni e pose determinate,/il circo policromo del nostro dinamismo senza fine». In altre parole, la prosastica e umanissima indifferenza. L’unica cosa insopportabile, dopotutto, è che niente è insopportabile.

1) La generazione non m’interessa

Il 16 giugno del 1988, a Montepulciano, ci lasciava Andrea Pazienza, di certo uno dei più grandi fumettisti italiani. Ci lasciava in un modo “maledettamente rock”. Con un biografismo da icona “bella&dannata” che lui stesso, nel corso degli anni, aveva riservato ad alcuni dei suoi personaggi più famosi. Come direbbe Pessoa, però, queste sono tutte considerazioni da poco. Apaz se n’è andato in un giorno di giugno dell’88. Lasciandoci, semplicemente, senza di lui. Condannandoci, semplicemente, all’assenza della sua opera futura. Non sarò certo io a domandare e domandarvi a chi “appartenga” la vita (e di conseguenza l’opera) di un artista. Molti altri lo hanno fatto con perizia e cognizione di causa ben superiore alla mia (mi viene in mente, tra tutti, Pier Vittorio Tondelli, grande amico di Paz). Quindi ogni parola espressa su quest’argomento, più che inutile, sarebbe oziosa e superficiale. Paz se n’è andato ad appena trentadue anni, con una carriera folgorante e improvvisa che sembrava ormai essergli alle spalle piuttosto che davanti. Il ’77 bolognese era passato da un bel po’: l’aveva sostituito il Riflusso, poi erano arrivati gli anni del nuovo boom economico, della piattezza delle relazioni, della morte delle ideologie, del consumismo, della vacuità della violenza. Paz, liberi di crederci o meno, aveva già dato.

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Aveva già dato soprattutto perché aveva dato voce, per mezzo dei suoi personaggi, a numerose situazioni che, di lì agli anni successivi, si sarebbero svelate nella loro più tragica realtà. Situazioni che Paz aveva tratteggiato con lo sguardo svagato di Pentothal, la dolorosa sofferenza di Pompeo, la lucida e spietata cattiveria di Zanardi, il “buonismo” tutto italiano di Pertini. Una delle “accuse” mosse a Paz è sempre stata quella di essere troppo “generazionale”. Di essere, cioè, il cantore di una realtà circostanziata e circostanziale, ovvero il ’77 bolognese. Realtà che, per contro, non aveva nemmeno vissuto politicamente con il massimo dell’impegno. Accusa gravissima per i tempi. Accusa che lo stesso Paz, per mezzo di Pentothal, previene e distrugge in uno dei suoi monologhi più famosi. Perché «il mito di Andrea Pazienza che non caca, tutto così insomma, è un fatto che ti sei inventato tu, cioè un mito che non esiste!».

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2) Trasformami in megafono m’incepperò

L’altra grande tentazione era quella di fare di Paz ciò che non era e che, con ogni probabilità, non sarebbe mai stato né mai avrebbe voluto essere: ovvero un artista tout court. Un artista impegnato e mono-referenziale, pronto a essere sparato alla velocità della luce verso lo status di “mito”. Nella canzone “A tratti”, Giovanni Lindo Ferretti canterà «non fare di me un idolo, mi brucerò». In questo, Paz sembra averlo anticipato di un bel po’, preferendo bruciarsi da solo piuttosto che finire sbrandellato da supposti esegeti in cerca solamente dall’ennesimo mito da innalzare per poi schiantare a terra. Come dicevano i “compagni” a Pentothal: «o diventi produttivo per il Movimento, o vaffanculo!». Le consorterie artistiche, in fondo, non sono troppo diverse da quelle politiche. Paz lo sapeva benissimo.

La domanda che viene spontanea nel ricordare la figura di Pazienza, quindi, non è tanto quella sulla natura della sua eredità culturale, piuttosto quella sul perché tale eredità (ovvero la sua produzione) ci colpisca in maniera così forte nonostante i decenni passati. Perché un autore definito troppe volte “generazionale”, se riletto ora, ci appaia così maledettamente attuale e, non esagero, chiarificatore. Tondelli ci viene nuovamente in aiuto: «Andrea riconduceva qualsiasi stimolo esterno alla sua arte, cioè a quello che era il suo modo di vivere, l’unico che, come ogni grande talento, conoscesse: quello della propria ispirazione». Da qui l’equazione è ben più semplice e lineare: Paz rielaborava gli eventi esteriori alla luce di una sensibilità interna che andava incredibilmente al di là di quanto sia stato sottolineato nel corso degli anni. Il tratto immaginifico, il citazionismo discreto ma profondo, l’ironia tagliente, la sessualità esibita senza alcun tipo di pudore o pruderie, tutti questi aspetti “tecnici” sono sì importantissimi nel considerare l’opera di Paz, ma passano tutti in secondo piano se rapportati alla dote citata in precedenza. Cioè alla sua sensibilità fuori dal comune di leggere il reale. Per comprendere ciò, la figura di Pompeo diventa indispensabile.

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3) È dolcissimo non appartenerti più

Pompeo è sicuramente uno dei personaggi più autobiografici di Pazienza. La dipendenza dall’eroina, la professione di fumettista, le disavventure con la legge, la passione per le ragazze, le scene di caccia nel bosco, il rapporto con la famiglia, sono tutti particolari che sembrano presi di pari passo dalla vita di Paz. Se non propriamente un calco di Pazienza, quindi, Pompeo è ciò che Paz avrebbe potuto essere nel “peggiore dei mondi possibili”. O viceversa. Riprendendo in mano “Gli ultimi giorni di Pompeo”, però, e leggendolo con attenzione si viene colpiti da un particolare decisamente insolito. Nonostante l’autobiografismo di fondo (cosa che Paz cercò sempre di valorizzare all’estremo), nonostante l’estrema aderenza a un mondo che ci appare “superato” (il mondo dell’eroina anni’70/’80, così diverso da quello delle dipendenze attuali), nonostante il forte radicamento al sostrato geografico e temporale dell’epoca (poesie, rimandi musicali, slang,…), Pompeo si rivela essere un personaggio moderno e attuale. E non lo è di certo per la partecipazione “emotiva” che il lettore instaura grazie al parallelismo tra l’esistenza del personaggio-Pompeo e quella dell’autore-Pazienza, piuttosto per una freschezza di scrittura che ha dell’incredibile. I testi di Paz, infatti, esondano dai fumetti e si fanno “fumetto” a loro volta. Le parole riempiono la pagina e diventano immagini funzionali alla medesima rappresentazione visiva. Lo stesso tratto mutevole viaggia di pari passo con il continuo cambio di registro interno alla narrazione. Esempi del genere ci fanno capire come l’arte di Paz avesse raggiunto dei limiti talmente elevati da essere quasi “costretta” nella forma del fumetto. Le ibridazioni iniziavano a essere sempre più marcate e necessarie. Inevitabili per un autore in continua evoluzione com’era Paz. Oggi parleremmo di graphic novel. Nell’Italia di un quarto di secolo fa era “semplicemente” fumetto. Pompeo, infatti, era qualcosa di assolutamente nuovo nel panorama italiano. Tentativi simili erano stati fatti forse solo in letteratura (ripenso al Tondelli di “Altri Libertini” nel 1980). Paz era riuscito a unire immagini e testo in un corpus talmente pulsante da apparirci ancora oggi vibrante di vita e freschezza propria.

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4) Sono un lupo: che non mi si chiami fido quindi!

Se Pompeo è il personaggio che più di ogni altro coniuga la capacità di Paz di leggere il reale e di reinterpretarlo alla luce di un talento fuori dal comune, fondendo diversi mezzi e registri espressivi, la figura che maggiormente incarna l’abilità di Paz di proiettare i suoi personaggi verso il futuro è, a mio avviso, quella di Zanardi. Inutile star troppo a descrivere chi sia Massimo Zanardi, in arte Zanna. Di certo uno dei personaggio più famosi, se non il più famoso, creato da Paz. Meglio concentrarsi sui (non) valori che il personaggio stesso porta con sé. La vacuità, la violenza finalizzata a se stessa, l’aggressività immotivata, l’assenza di codici morali. Tutte cose terribilmente pompose e noiose se confrontate con la piacevolezza (spesso dissacrante) della lettura delle sue avventure. Eppure è proprio così, perché Zanardi è il prodotto di una società sempre più vuota. Una società che non crede a nulla e che non trova alcuna valvola di sfogo alle sue fantasie più turpi e inconfessabili. Zanardi è, appunto, questa valvola di sfogo. Lo stesso Pazienza dirà di Zanna: «Zanardi è cattivo come può esserlo un ripetitore RAI», puntando il dito su come Zanna sia il risultato di una società in declino. Non la pietra dello scandalo di una società sana, emarginato a causa delle sue azioni turpi e violente, bensì la risultante di una società malata che necessita di una sorta di “capro espiatorio”. Capro espiatorio che, ovviamente, agirà in maniera del tutto contraria. Negli anni ’80 Zanardi faceva inculare una timida ragazzina da suo fratello (“Cenerentola 1987”), colpevole di avergli fatto un torto (“torto” di cui, e ciò è terribilmente sintomatico della natura di Zanardi, lui stesso non ricorda i particolari), spingendolo a suicidarsi per la vergogna. Negli anni dieci del 2000, ragazzini quindicenni picchiano compagni di classe autistici o stuprano in gruppo coetanee. Il mondo, verrebbe da dire, è pieno di ripetitori RAI: a Paz il merito di avergli dato un tratto inconfondibile.

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C’è, in Zanardi e nei suoi compagni di scorribande Petrilli e Colasanti, qualcosa di molto diverso rispetto alla distopia di “Arancia Meccanica”, uno dei primi possibili rimandi. Alex e i suoi Drughi sono la parte “problematica” di una società futuristica che cerca di curare la piaga sociale della violenza. Zanna è il jolly, indispensabile nell’universo di Apaz, cui ci si rivolge per scatenare tale violenza. «Se tu dovessi cercare qualcuno disposto a segare una mano a un altro o a pestare una donna incinta, è difficile che lo trovi, anche pagando. Zanardi in questo ha un suo ruolo, può saltar fuori come unica possibilità». Il fatto, poi, che Paz abbia voluto ritrarsi in una lotta corpo a corpo con il suo Zanna (lotta dalla quale uscirà sconfitto e “umiliato”) è decisamente sintomatico del suo rapporto con il personaggio e del valore che voleva ascrivergli. Anche la violenza, dopotutto, è un tipo di illuminazione.

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5) “Vecchio Paz”

L’impressione è che gli ultimi anni di Paz siano stati anni di “confusione”. Non tanto a livello di produzione, quello è sempre rimasto molto alto come testimoniano le ultime tavole completate, bensì a livello di direzione da imboccare. Gli incompiuti “Astarte” e “Zanardi medievale” sono lì a testimoniarlo. È come se Paz si fosse reso conto di aver concluso la prima parte della sua carriera, e ora cercasse una nuova via espressiva. Una via che non eludesse necessariamente il fumetto, bensì che lo portasse a una nuova dimensione. Che si emancipasse non dalle tematiche trattate in precedenza, piuttosto dagli stilemi e dalla ricorsività degli stessi. Non si tratta, però, di elucubrazioni mentali che lasciano il tempo che trovano: follie di poco conto che avvolgono i fan di un artista nel ricordarne la scomparsa prematura. No, qui si tratta di un grido lanciato più volte dallo stesso Paz. Un grido che trova concordi la maggior parte delle persone avvicinatesi alla sua opera. Del resto, la “stanchezza” di Paz è ben descritta nella postilla dell’autore a “Gli ultimi giorni di Pompeo”: «in questi anni ho scoperto diverse cosucce. Intanto di non essere un genio. Perché sì, lo confesso, da ragazzo ci speravo. Invece no, sono un fesso qualsiasi […] di me, volendo, si può dire tutto il male che si vuole, però tante di quelle cose non sono vere. Capisco viceversa la delusione di qualcuno quando si è accorto che il fumettaro per cui tifava altri non era che il fesso di cui sopra. Ora, naturalmente, che son fesso me lo posso dire io da solo, perché sono sempre in grado di stracciare il novanta per cento dei vostri.».

Che il buon Apaz fosse un fesso, però, non lo crederebbe anima viva. Anzi, le sue insicurezze e i suoi dubbi fanno a pari con le rivendicazioni di un’onestà intellettuale e di una sincerità di fondo che erano la sua stessa cifra artistica. Forse sono proprio queste le caratteristiche che hanno fatto sì che in lui si sviluppasse quella capacità di leggere così in profondità il reale da reinterpretarlo. Perché solo chi è in grado di immergersi a fondo in se stesso («l’autobiografia, la capacità di usare tutto ciò che ci circonda per raccontare è anche oggi una via del fumetto d’autore. Un segnale preciso che, se sei stato lettore, non puoi ignorare quando diventi autore» dirà di Pazienza Davide Toffolo) è in grado di immergersi a fondo nel reale. Perché, dopotutto, le bugie si raccontano prima di tutto a se stessi, e soltanto poi a chi ci circonda. E Paz era tanto spietato con se stesso quanto con i suoi personaggi destinati a rappresentare le sue storie. O meglio, «le storie immaginate da Andrea prima che la storia accadesse, mentre la storia si avviava a essere».

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Conclusione: vuoi mettere risorgere?

In uno dei suoi rari testi teorici, intitolato “Il plesso solare e la tecnica del fumetto”, Paz descriveva in questi termini la sua personale visione della materia: «secondo me un fumetto, cosi come un libro o un film, deve muovere il kiai. Il kiai, secondo la disciplina del kendo, corrisponde al plesso solare. Se io devo battere qualcuno non lo batto con la testa, non gli do le botte con le zampe, gliele do con il plesso solare. Se io dico tu ti devi spostare perché io ti schiavardo, ti appiccico contro il muro, lo dico con lo stomaco. È allora che si fa paura veramente, e a me interessa far paura, tutto il resto non esiste». In fondo, da vera rockstar, Paz sapeva che per dare il meglio di sé bisogna lavorare nella zona del diaframma. E, da lì, far uscire la voce pulita e forte. Aggressiva ma, allo stesso tempo, pura e sincera. Lo stomaco è la prima arma che ci viene data, sembra dire Paz, e con esso si deve combattere quando ci si getta nella mischia della vita. La violenza di Zanardi che sbatte a terra il suo creatore, dopotutto, non è nient’altro che la violenza dell’assurdità che ci sbatte in faccia l’assenza di Apaz. E che lo fa ad anni di distanza, affinché ci possiamo ricordare della sua opera e della sua mancanza.

Nel ricordare la morte di Paz Tondelli, citando Pavese, scriveva che «ogni vita è quella che doveva essere». Il poeta però, come ricorda Pessoa, non è nient’altro che un fingitore. Ben diversa la sorte di un fumettista: radicato così visceralmente alla realtà, il fumettista vive della ricerca del superamento della stessa, così da frequentare «il futuro nella vita di ogni giorno». Anche a costo di incorrere, alla fine, come in una eresia, in una incredibile semplicità. Una semplicità così evidente che, nonostante ci fosse passata davanti agli occhi per decenni, non si era mai resa manifesta.

Buona resurrezione, vecchio Paz, è tempo di tornare a spaccare un po’ di culi…

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Andrea Gratton

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